giovedì 23 gennaio 2020

Metropolitana milanese, linea verde. Numero 2, in ordine cronologico.
Il convoglio sfreccia davanti al mio viso come se non dovesse fermarsi mai e un attimo dopo è immobile come non si fosse mai mosso. Apre le porte, salgo.
Studio l'ambiente, lo faccio sempre, e scruto veloce lo sguardo di chi non ha ancora eseguito l'impianto neurale occhi/cellulare: tutto bene, sono tre su circa duecento, sono coloro che ancora leggono libri e che domineranno il mondo, gente che nemmeno sa cosa sia Bibbiano, gente pura che pensa alla soluzione finale con grande ottimismo. In Matrix sarebbero gli eletti, qui sono i Messia.
Si chiudono le porte, e in pochi sembrano notarlo, eppure non è normale che un sistema idraulico di tale complessità debba per forza funzionare. Registro e lateralizzo il dettaglio, ora devo capire con chi passerò i miei prossimi minuti di vita.
Un'anziana signora in piedi ondeggia a un metro da me come un galleggiante nell'acqua, né fuori né dentro. Sembra debba cadere, non cade, non si aggrappa a niente. La squadro partendo dal basso: le sue non sono semplici scarpe da noviziato, sono calzari magnetici che la tengono ancorata al pavimento contro ogni valore G.
Una fotomodella-modello standard rivolge lo sguardo nove orbite solari più su, probabilmente scongelata stanotte dopo che la vidi, uguale ad oggi, identica vent'anni fa probabilmente nello stesso convoglio: la usano a ogni nuova campagna del mercatone dell'arredamento di Fizzonasco, il titolare ci tiene alla continuità e paga bene i genitori per il letargo criogenico della minorenne, ormai oltre gli anta ma lei non lo sa.
Il ragionier Rossi replica al mio occhiare e abbassa nervosamente gli occhiali di osso spesso misura anni '70, scotch anni' 80, disponibilità a 90, sociosensibile 360°. Passo oltre: il mio superudito avverte un tappare collettivo, è uscito un nuovo meme su instagram, il contagio è istantaneo, sono già tutti morti mentre si preoccupano di Wuhan e di un'altra epidemia da cui stare lontani, stretti stretti, belli appiccicati. Tossisco forzatamente per generare panico ma la realtà non sfonda il display, non da davanti.
Un cinese resta in un angolo, un cordone sanitario virtuale lo ripara da eventuali aggressioni, la distanza di rispetto è proporzionale al numero di morti per l'epidemia e cresce di fermata in fermata.
Il convoglio si muove.
Un ragazzino si guarda intorno, il padre è dentro un videogioco e ne uscirà a Loreto, ha quattro vite, una clandestina, una con sua moglie, altre due online.
Io avverto un senso di ingiustizia e sorrido al credoquasidodicenne. Lui ferma il suo sguardo su di me. Ricambia il sorriso.
In un attimo capisco che siamo uguali.
Conosco il suo pensiero: aiutami, siamo circondati da zombie che esplicitano il loro essere nelle viscere della città per poi celarle goffamente una volta riemersi in superficie. Annuisco per fargli capire che ho capito, ho colto la sua richiesta di aiuto.
Tuttavia, sappiamo entrambi che loro si riconoscono anche là fuori. Hanno un segnale convenuto con il quale dichiararsi.
Io e il ragazzino ci fissiamo ancora pochi secondi, il tempo affinché lui possa condividere le ultime sue intuizioni e mettermi in guardia da cose che solo una mente giovane può indovinare.
Ora schiude appena la bocca.
Non lo fare, ragazzino. So che vuoi rivelarti a me, ma non lo fare, non serve, ho capito. Se ti fai riconoscere, tempo un compleanno e ti regalano uno di quei cosi e finirai come loro. Ma non riesco a fermarlo e in lui riconosco l'eroe, colui che comunque cambierà il corso di qualcosa e inizierà proprio da me.
Eccolo che parla e nel fragore del vagone afferro la Domanda, scandita bene ad alta voce affinché tutti possano udire: "Signore, vuole sedersi?".
Rimango immobile, tutto si ferma, anche il convoglio, qualcosa mi ha scosso dalle fondamenta. In un attimo non ho più vent'anni, né ottanta e nemmeno sono Signore. Signore è morte e distruzione, Signore è l'abisso, il punto di non ritorno, Signore è l'anticamera del posto fisso ai margini del cantiere, le mani dietro la schiena. Signore è la condizione che se l'accetti è il segnale di resa: le cellule cadono a terra strato per strato, le domeniche sono al parco a giocare a bocce, i giornali si usano per pulire i vetri che non fanno alone.
Mi volto, faccia da poker, sfilo accanto alla vecchia urtandola volontariamente e i suoi scarponi fanno il loro lavoro.
Infilo le porte del vagone ancora fermo, non leggo il nome della stazione, ora sono altrove, sono a un vecchio trauma, sono seduto sul tram numero 15, direzione Gratosoglio, trentacinque anni fa, chiedo a un vecchietto se vuole sedersi, mi squadra e mi manda a fare in culo, tu e la tua gentilezza, cafone! e allora capisco tutto, lo perdono, mi perdono e i miei occhi si perdono a cercare l'uscita, devo riemergere, il cellulare non prende qui così.

Roberto Rilletti (Rillo)

Nessun commento:

Posta un commento