lunedì 24 dicembre 2012

Abbastanza grandi
[fiaba per la vigilia di Natale, di Silvia Messa]

Per Chiara e Carolina. E i ragazzi che crescono in un mondo difficile.

Erano abbastanza grandi. La mamma aveva detto così, quell’autunno. Abbastanza grandi per prendere la metropolitana e andare a scuola da soli. Erano poche fermate, ma lei non poteva più accompagnarli. Usciva presto la mattina, per il lavoro nuovo.
Lasciava il latte da scaldare, dentro il microonde. E due brioches tristi, nella confezione di plastica. Le cose nel cellophane sono tristi. Non liberano il loro odore nell’aria. Le apri e sono quasi senza sapore. Bisognava aspettare la domenica, quando mamma cuoceva la torta e il pomeriggio profumava di tè alla vaniglia e cioccolata. Ma era un bel po’, a pensarci, che mamma non aveva tempo per fare la torta. Spesso, Bet sacrificava la mancia della nonna per comprare brioches calde, al bar dei cinesi. Cris prendeva quella al cioccolato, sporcandosi regolarmente labbra e faccia. A lei, invece, piaceva la brioche alla crema. Sapeva di cose burrose. E di vaniglia, come la domenica. Il sapore le restava in bocca, mentre camminavano verso le elementari.
Lì, finiva il viaggio con il fratello. Il suo proseguiva oltre il parchetto e il viale con la filovia, fino al comprensorio delle superiori, un po’ cemento, un po’ murales. Era il primo anno del ginnasio, per lei. Materie nuove, difficili. Quell’alfabeto vecchio e lontano, in cui neanche Indiana Jones avrebbe capito qualcosa. Il pomeriggio, per far passare il tempo prima che uscisse Cris, restava in biblioteca. Poi andava al parchetto.
Sedeva su una panchina, ancora tiepida di sole, e guardava i disegni dei bambini, coi gessetti colorati, sull’impiantito scuro sotto le altalene. Bet era grande, ma a volte prendeva un pezzo di gesso a scuola e scriveva anche lei per terra: lettere greche, ma parole in una lingua tutta sua, che sperava fosse solo lei a capire. Perché così poteva scrivere cose segrete. Come il nome del compagno dell’ultimo banco, che le prestava sempre le matite. E il suo nome, ma intero. Elisabeth, lo stesso della nonna, nata in Galles. Alla nonna nessuno aveva mai osato abbreviare il nome. Con lei, invece, non si facevano problemi. Bet… Qualcuno la prendeva in giro, a scuola, perché bet significa scommessa, in inglese. L’idea delle scommesse non le piaceva. Ma quella di un colpo di fortuna, sì, moltissimo.
Insomma, le piaceva pensare che prima o poi qualcosa di bello sarebbe capitato. Qualcosa come un part-time super retribuito per la mamma. O una valigia anonima, piena di soldoni, davanti alla porta di casa. O un apparecchio per i denti per Cris, portato in volo da un passero generoso.
Sognava la fortuna, quel pomeriggio. Non quella che la gente invocava, giocando per ore con le slot machine. Li vedeva, uomini e donne concentrati, nel bar dei cinesi, ripetere lo stesso gesto come automi, sperando che la macchina infernale vomitasse una pioggia di monetine.
C’era bisogno di un po’ di fortuna, lo sapeva. Era un periodo difficile, per la sua famiglia. E per tante persone che conosceva: ci sarebbe voluta un po’ di speranza per tutti. Un futuro migliore, un anno nuovo, quello che stava per arrivare. Il sole, la primavera.
Invece, era davvero inverno. Le giornate erano diventate brevissime. La scuola di Cris era finita da meno di un’ora e già imbruniva. Le rare foglie rimaste sui rami dei platani stampavano larghe ombre scure, sull’asfalto, sotto la luce dei lampioni. La terra era dura, gelata. Bet la sentiva, sotto le scarpe, risuonare come un guscio vuoto.
Cris le camminava accanto. La mamma pretendeva che lui le desse la mano, per strada. Ma suo fratello si sentiva ormai grande e non voleva farlo. Eppure, quando c’era una strada da attraversare, a entrambi veniva d’istinto cercarsi, con le mani. Come se quel contatto potesse salvarli dai pericoli del traffico.
«Scendiamo?» propose Cris. Buio per buio, visto che fuori era ormai notte, scelsero di percorrere la lunga galleria sporca che attraversava la piazza, sotto i porticati, fino alla stazione della metro. Si allineavano cancelli chiusi e serrande abbassate, come occhi addormentati. Dalle vetrine lerce di un negozio, vuoto da anni, occhieggiavano adesivi di pesci e tartarughe, fantasmi di una bottega di acquari, che ormai nuotavano solo in un mare di polvere.
Sul fianco della galleria si apriva un altro tunnel, che portava al mezzanino del metro. In quel pezzo di corridoio gelido, Cris si fermò. «C’è un drago, lì».
Bet seguì lo sguardo del fratello. Su una piccola vetrina spiccava una bandiera gialla e verde, su cui campeggiava un drago cane dorato. Custodiva il negozio. I ragazzi ne osservarono l’interno. Era affollato di uomini con la pelle scura. C’erano anche un paio di donne, sedute su due sgabelli. Sul bancone, stava una piantina di plastica. Tutt’attorno, sulle pareti, scaffali di libri, videocassette, dvd. A ridosso della vetrina, una teca di vetro ingombra di collane, bracciali, orecchine, ampolline e cianfrusaglie. E un altro scaffale, stipato di cd: migliaia di facce brune e vestiti variopinti li fissavano dalle copertine. Alcune custodie si erano infilate tra ripiani e vetrina. I cantanti giacevano storti e a testa in giù, destinati a probabile nausea e certissimo oblio.
Lo sguardo dei ragazzi si spinse all’interno, fin dietro il bancone.
Un signore scuro, con un cappello di seta verde, cangiante, intercettò gli sguardi curiosi e sorrise. Aveva gli occhi nocciola, luminosi, e denti candidi, perfetti.
Accennò un richiamo, con la mano. «Venite!» disse, muovendo appena le labbra.
Bet sentì che Cris cercava la sua mano, come per attraversare la strada. Entrarono nel negozio.
Nonostante la quantità di merce esposta e il numero dei clienti, l’aria aveva un buon odore. Non c’era traccia di polvere, anche negli angoli dove i libri e gli oggetti sembravano dimenticati da anni.
«Tè?». Il bottegaio indicò due bicchierini smaltati di rosso e oro, da cui si sollevava un leggero vapore.
«No, grazie!». I fratelli risposero all’unisono. La mamma era categorica: mai accettare cibo o bevande dagli sconosciuti.
«Che cosa posso fare per voi?».
Bet si guardò attorno. Se il greco era ostico, i caratteri sui cartelli e sulle copertine le erano del tutto sconosciuti. Roba aliena.
«Temo che lei non abbia niente per noi».
L’uomo sorrise. «Cris… Ti chiami Cris, vero? Fammi vedere le tue mani».
Il bambino le appoggiò sul bancone.
«Mmm, piccole dita. Dovresti riuscirci».
Bet era in ansia: come sapeva il nome di suo fratello quell’uomo? E la faccenda delle piccole dita le fece venire in mente il telegiornale e le immagini dei bambini schiavi, costretti a rinunciare al gioco e allo studio per intrecciare i nodi dei tappeti. Con le loro piccole dita.
L’uomo colse un’ombra sul viso della ragazzina. «Non temete. Vorrei solo chiedere a Cris una cortesia: recuperare con le sue dita sottili quel cd incastrato là, contro la vetrina. Indicò a Cris un cd con un uomo in copertina, con la barba scura, vestito di verde e d’oro.
Il ragazzino infilò la mano dietro il ripiano ed estrasse il cd. Altri, che stavano appoggiati in equilibrio precario, scivolarono verso il basso e si assestarono, in un nuovo disordine.
«A te, Bet, serve questo». Le porse un’ampollina verde, piccolissima e fragile.
«Che cos’è?».
«Non posso spiegartelo nella tua lingua. Non c’è una parola adatta. Ma lo scoprirete facilmente».
«Non abbiamo soldi». Bet mentì. Aveva in tasca qualche euro, ma non era sicura di volerli spendere per quelle cose. L’uomo sembrò riconoscere la bugia.
«Me li darete la prossima volta. Se sarete soddisfatti». Tese a Bet l’ampollina. Lei la mise nella tasca della giacca. Non quella con le monete. Il cd fu affidato a Cris, che lo infilò nello zaino, tra i quaderni. I fratelli indietreggiarono, inciampando nello sgabello di plastica verde, che stava accanto all’uscita.
«Allora, vi aspetto». L’uomo alzò la mano in un gesto di saluto. E loro risposero, nello stesso modo.
Fuori dalla bottega, camminarono rapidi verso la metro. Non parlarono tra loro. Il dubbio di aver fatto qualcosa di sbagliato o stupido era forte.
Fu Bet a dire: «In fondo, è solo un cd. E l’ampollina la posso buttare». Ma le sue parole non le sentì nessuno, nel rumore del treno che frenava, lungo la banchina della stazione.
A casa, era buio. Le tapparelle erano rimaste abbassate, dal mattino.
«Povere piante» pensò Cris, che a scuola stavo studiando la sintesi clorofilliana.
Estrasse il cd dallo zaino e lo appoggiò sul tavolo. Lo aprì, con cautela.
Dentro, non c’era il solito disco d’argento. Ma una specie di cartone, poroso.
«Questo non lo legge il lettore cd. Sicuro».
Bet lo sfiorò con la punta delle dita. «Sembra terra».
«Magari va bagnata, come la terra dei vasi». Per quanto strampalata, l’idea di Cris aveva una sua logica.
Bet pensò che c’era del liquido nell’ampollina. E che si poteva usarlo per bagnare il disco.
Svitò piano il tappo a biglia, dorato. Il liquido non aveva colore, ma emanava un profumo delicato, di gelsomino. La ragazza ne lasciò gocciolare una piccola parte sul disco.
«E adesso?» chiese al fratello.
Dopo qualche secondo, il disco parve animarsi. Si rigonfiò e pulsò di luce verde. Poi cominciarono a spuntarne tralci, che si allungavano sinuosamente in ogni direzione. Nell’aria, si diffuse il profumo di gelsomino. E s’ispessì, moltiplicandosi in aromi penetranti e sconosciuti.
«Frangipane» riconobbe Bet, che aveva un sapone, in bagno, con quel profumo delizioso.
L’aria si fece umida, greve, mentre la vegetazione s’infittiva.
In sottofondo, cominciò a udirsi una musica. Sembrava una chitarra, ma il suono era diverso dal solito. Come se le corde fossero mille, vibranti in una strana armonia.
«Sitar!». Cris ricordò di averne sentito il suono in una canzone dei Beatles, dalla nonna.
Altri rumori si distinsero, poco a poco: fruscii, sibili, ciangottii, un frinire insistente.
Poi, echeggiò un grido.
Da dietro il divano, ormai ricoperto da un rigoglioso groviglio di foglie lucide, sbucò di colpo una scimmia, con il muso appuntito e un folto ciuffo di peli chiari sulla testa. Si avvicinò, guardinga, ai ragazzi e tese una zampetta toccando la gamba di Cris.
L’animale sembrava amichevole. Bet stava per accarezzarlo, quando dal fitto delle piante sentì un ringhio. La scimmietta, spaventata, s’infilò tra le foglie e sparì.
Da una felce spuntò un grosso muso. Sembrava il drago cane della bandiera della bottega. Ma vivo, in carne ed ossa. I ragazzi erano paralizzati dal terrore.
Poi, incredibilmente, il drago sorrise. I fratelli non avevano mai visto un drago cane. Né, tantomeno, un drago cane sorridente. Ma il sorriso, sul suo muso zannuto, era riconoscibilissimo.
«Salute a voi!» disse, amichevole. «Quella scimmia vi avrebbe fatto un dispetto. O rubato qualcosa».
«E tu? Cosa ci farai?» Cris prese coraggio, anche se la voce gli usciva stridula, dalla gola.
«Io porto solo bellezza. E protezione». La grossa bestia alzò il muso e attraversò la stanza, ormai irriconoscibile, così invasa da piante com’era. La musica del sitar si era fatta più forte. Ma tra le note bet udì qualcosa di stonato: il citofono.
«La mamma! Chiudi il cd, Cris. Subito!».
Il ragazzino si lanciò sul disco, abbassando di botto il coperchio di plastica, mentre la sorella correva a rispondere e ad aprire.
Appena il disco fu chiuso, le piante scomparvero. Del drago cane non c’era più traccia. I ragazzi fecero sparire cd e ampollina, mentre la mamma entrava in casa.
A cena, furono particolarmente silenziosi. Solo dopo, in camera, iniziarono a discutere, a bassa voce.
«Domani lo riportiamo al negozio» concluse Bet. «Ti immagini se la mamma si fosse trovata la giungla, al posto del soggiorno? E il drago, poi! Lei che non vuole tenere neppure un cane». Cris non seppe come controbattere. Si addormentò a fatica, cullato dal ricordo dell’armonia del sitar.
Il giorno dopo, finita la scuola, i ragazzi si precipitarono nella bottega del mezzanino.
L’uomo scuro li aspettava, con il solito cappello verde e il sorriso di chi sa tutto.
«Siete venuti per un nuovo noleggio?»
«Gliel’abbiamo riportato, il cd. E l’ampolla. Non li vogliamo». Bet tirò fuori tutta la sua determinazione.
«Avete avuto paura?» chiese il bottegaio, con espressione preoccupata.
«No! Sì... Un po’» ammise Bet.
«Ma era meraviglioso, quel mondo» aggiunse Cris, sognante.
«Allora, ragazzi, forse dovreste solo cambiare cd. Il mare vi piace?». Allungò sul bancone un nuovo disco: una fanciulla con un sari rosa danzava sulla battigia, a piedi scalzi, in copertina. E accanto al disco, l’uomo fece scivolare un’altra ampollina, blu.
«Ma la mamma? Che cosa dirà?». Bet era piena di dubbi.
«Domani è Natale» l’uomo la rassicurò, «sarà felice anche lei di trovarsi in una bella fiaba».
I ragazzi presero il disco. Bet lasciò sul banco i soldi che avrebbe speso per le brioches. «Ho solo questi» si scusò.
«Vanno benissimo». Il bottegaio infilò le monete in un salvadanaio di coccio, dorato. Era la testa di un drago cane.
Bet aveva appoggiato la mano sulla maniglia, per uscire dalla bottega, quando Cris si fermò.
«Ma chi sei, tu?». Il ragazzino guardò fisso negli occhi l’uomo. Anche Bet lo scrutava.
«Non può fare tutto da solo, il capo». Il bottegaio inclinò il capo e fece l’occhiolino.
«Il capo?» Cris non capiva.
«Ma sì, Babbo. Su, a Nord».
I ragazzi tacquero, meravigliati. Poi Bet aprì la porta del negozio, con gentilezza.
Tintinnò una campanellina, sul battente. E loro, finalmente, la riconobbero.

Silvia Messa, 20 dicembre 2012

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