Insomma, oggi posso dire con certezza, guardando indietro, con rinnovate sicurezza e maturità, e vecchiezza, e due palle anche, di aver superato momenti difficili, bui, nei quali non riuscivo a vedere altra via d'uscita se non la mia testardaggine e la lavatrice che gira rassicurante (l'asciugatrice no perché non si vede dentro).
Buba (Georgia)
- - -
L'odore è quello di notte inoltrata anche se in realtà non sono nemmeno le undici. La stanchezza inganna i sensi e la percezione del tempo. Ti siedi sulla tazza del water, pensieri confusi, pensieri pesanti. Piano piano tutto si allontana irrilevante, il lavoro, la casa, la famiglia. Un passo nel vuoto, così all'improvviso. Potresti restare lì, nei confini della follia, per l'eternità e nessuno verrebbe a cercarti.
Poi il tuo sguardo si scosta di un attimo ed eccola la lavatrice, piena di biancheria da stendere.
Così sorridi e passando dall'oblio all'oblò torni.
wild (Tania)
giovedì 1 ottobre 2015
Accompagno le bambine a scuola, poi mi allungo dalla pediatra a ritirare un certificato per Ginevra.
Nella sala d'attesa siamo in sette persone. Sono seduto accanto a una signora riccia coi capelli raccolti sopra la nuca e gli occhiali da segretaria, che sta digitando furiosamente su un tablet. Di fronte a me una coppia di colore, entrambi scurissimi, con una bambina minuta che la mamma sta allattando al seno. Sono così belle che sembrano un quadro. Una bambina bionda con le trecce, seduta in fianco a una nonna vestita elegante, li osserva come ipnotizzata. La nonna osserva a sua volta la nipote con un'espressione di allarme. Quando la bambina bionda scende dalla sedia, la nonna ha un sussulto. La bambina bionda va dritta dalla coppia di colore e prima che la nonna riesca a fermarla fa una carezza sulla testa alla bambina piccola. La mamma stacca la bambina piccola dal seno, si sistema, la batte sulla schiena, infine la volta tenendola seduta su una gamba proprio davanti alla bambina bionda, quasi per dargliela. La bambina bionda la fissa.
"Quanti anni hai?", dice la mamma di colore in un italiano incerto.
"Due", dice la bambina bionda, facendo il segno con le dita.
"Ormai tre", la corregge la nonna alle sue spalle.
"Come si chiama?", dice la bambina bionda indicando la bambina piccola.
"Si chiama Anele", dice la mamma.
"E quanti anni ha?", dice la bambina bionda.
"Ha due mesi e mezzo", interviene il papà, "è una bambina molto piccola."
La bambina bionda le avvicina la mano alla guancia e la accarezza ancora. La nonna ha sul viso un'espressione che pare dire "oddio, ecco l'Ebola". La bambina piccola, calmissima, sembra accennare un sorriso.
"Come si chiama di cognome?", dice la bambina bionda.
"Mbokany", dice il papà.
La bambina bionda prova a dirlo, ma non ci riesce.
"È un nome difficile", dice il papà. La bambina bionda prova ancora. La porta della dottoressa si apre.
"Semprebon!", dice la dottoressa.
La nonna si incammina e fa per entrare nello studio.
"Priscilla!", dice quand'è quasi sulla porta, "vieni, dai."
Priscilla non si muove, continua a fissare la bambina piccola.
"Vai che la mamma ti chiama", dice l'uomo di colore.
La nonna dalla porta guarda l'uomo.
"Sono la nonna", dice con una punta di fastidio nella voce.
"Signora, credo volesse farle un complimento", dico io.
L'uomo sorride, la nonna no.
"Bokani!", dice Priscilla.
"Brava", dice l'uomo, "ma adesso vai dalla nonna."
Priscilla obbedisce, entrano, la porta dello studio si chiude. L'uomo ed io ci guardiamo. La signora riccia continua a digitare sul suo tablet.
"Non è che volevo fare un complimento", dice, " è che nel mio paese nonna e mamma si dicono nello stesso modo, e anche dopo quasi tre anni mi sbaglio sempre."
"Capisco", dico. "Io lo dicevo solo perché dicendole mamma l'hai fatta sentire più giovane."
"Giovane è un complimento?", dice.
"Di sicuro non lo è vecchio", dico ridendo.
L'uomo mi fissa.
"Da noi i vecchi sono gli adulti più rispettati, i più preziosi", dice. "Per questo durante la guerra li uccidono per primi."
Mi sento spiazzato, come se qualcuno avesse improvvisamente girato la mia testa in un'altra direzione.
"Ma se i vecchi sono più preziosi", dico, "allora perché mamma e nonna si dicono allo stesso modo?"
Mi guarda con uno sguardo paterno, lo so perché li conosco bene.
"Perché mamme e nonne hanno dato la vita", dice indicando prima sua moglie e poi sua figlia.
Penso che mi sembra un concetto così elementare da essere meraviglioso. Guardo quest'uomo scuro come la notte, la sua compostezza, lo ascolto parlare con misura ed educazione, non una parola fuori posto. Penso anche che lui è lì con la sua famiglia, li ha accompagnati. Mentre io, per esempio, sono dal pediatra da solo, e la bambina bionda, per esempio, è venuta con la nonna, e la signora riccia, per esempio, non ha mai sollevato la testa da quando siamo entrati, come se non esistessimo.
Lo guardo e non conosco la sua storia, ignoro se sia arrivato qui su un barcone o su un jet privato, se sia un lavapiatti o se sia laureato a Oxford. Ma non posso fare a meno di pensare al pregiudizio nello sguardo della nonna di Priscilla, ai soliti discorsi sull'"invasione", a quelli che senza farsi alcuna domanda mai, vorrebbero "aiutarli tutti a casa loro".
E mi viene da pensare, invece, a quanto avremmo tanto bisogno di persone come quest'uomo. Per guardare in altre direzioni. Per riscoprire i fondamentali.
Per aiutarci un poco a casa nostra.
Matteo Bussola
Nella sala d'attesa siamo in sette persone. Sono seduto accanto a una signora riccia coi capelli raccolti sopra la nuca e gli occhiali da segretaria, che sta digitando furiosamente su un tablet. Di fronte a me una coppia di colore, entrambi scurissimi, con una bambina minuta che la mamma sta allattando al seno. Sono così belle che sembrano un quadro. Una bambina bionda con le trecce, seduta in fianco a una nonna vestita elegante, li osserva come ipnotizzata. La nonna osserva a sua volta la nipote con un'espressione di allarme. Quando la bambina bionda scende dalla sedia, la nonna ha un sussulto. La bambina bionda va dritta dalla coppia di colore e prima che la nonna riesca a fermarla fa una carezza sulla testa alla bambina piccola. La mamma stacca la bambina piccola dal seno, si sistema, la batte sulla schiena, infine la volta tenendola seduta su una gamba proprio davanti alla bambina bionda, quasi per dargliela. La bambina bionda la fissa.
"Quanti anni hai?", dice la mamma di colore in un italiano incerto.
"Due", dice la bambina bionda, facendo il segno con le dita.
"Ormai tre", la corregge la nonna alle sue spalle.
"Come si chiama?", dice la bambina bionda indicando la bambina piccola.
"Si chiama Anele", dice la mamma.
"E quanti anni ha?", dice la bambina bionda.
"Ha due mesi e mezzo", interviene il papà, "è una bambina molto piccola."
La bambina bionda le avvicina la mano alla guancia e la accarezza ancora. La nonna ha sul viso un'espressione che pare dire "oddio, ecco l'Ebola". La bambina piccola, calmissima, sembra accennare un sorriso.
"Come si chiama di cognome?", dice la bambina bionda.
"Mbokany", dice il papà.
La bambina bionda prova a dirlo, ma non ci riesce.
"È un nome difficile", dice il papà. La bambina bionda prova ancora. La porta della dottoressa si apre.
"Semprebon!", dice la dottoressa.
La nonna si incammina e fa per entrare nello studio.
"Priscilla!", dice quand'è quasi sulla porta, "vieni, dai."
Priscilla non si muove, continua a fissare la bambina piccola.
"Vai che la mamma ti chiama", dice l'uomo di colore.
La nonna dalla porta guarda l'uomo.
"Sono la nonna", dice con una punta di fastidio nella voce.
"Signora, credo volesse farle un complimento", dico io.
L'uomo sorride, la nonna no.
"Bokani!", dice Priscilla.
"Brava", dice l'uomo, "ma adesso vai dalla nonna."
Priscilla obbedisce, entrano, la porta dello studio si chiude. L'uomo ed io ci guardiamo. La signora riccia continua a digitare sul suo tablet.
"Non è che volevo fare un complimento", dice, " è che nel mio paese nonna e mamma si dicono nello stesso modo, e anche dopo quasi tre anni mi sbaglio sempre."
"Capisco", dico. "Io lo dicevo solo perché dicendole mamma l'hai fatta sentire più giovane."
"Giovane è un complimento?", dice.
"Di sicuro non lo è vecchio", dico ridendo.
L'uomo mi fissa.
"Da noi i vecchi sono gli adulti più rispettati, i più preziosi", dice. "Per questo durante la guerra li uccidono per primi."
Mi sento spiazzato, come se qualcuno avesse improvvisamente girato la mia testa in un'altra direzione.
"Ma se i vecchi sono più preziosi", dico, "allora perché mamma e nonna si dicono allo stesso modo?"
Mi guarda con uno sguardo paterno, lo so perché li conosco bene.
"Perché mamme e nonne hanno dato la vita", dice indicando prima sua moglie e poi sua figlia.
Penso che mi sembra un concetto così elementare da essere meraviglioso. Guardo quest'uomo scuro come la notte, la sua compostezza, lo ascolto parlare con misura ed educazione, non una parola fuori posto. Penso anche che lui è lì con la sua famiglia, li ha accompagnati. Mentre io, per esempio, sono dal pediatra da solo, e la bambina bionda, per esempio, è venuta con la nonna, e la signora riccia, per esempio, non ha mai sollevato la testa da quando siamo entrati, come se non esistessimo.
Lo guardo e non conosco la sua storia, ignoro se sia arrivato qui su un barcone o su un jet privato, se sia un lavapiatti o se sia laureato a Oxford. Ma non posso fare a meno di pensare al pregiudizio nello sguardo della nonna di Priscilla, ai soliti discorsi sull'"invasione", a quelli che senza farsi alcuna domanda mai, vorrebbero "aiutarli tutti a casa loro".
E mi viene da pensare, invece, a quanto avremmo tanto bisogno di persone come quest'uomo. Per guardare in altre direzioni. Per riscoprire i fondamentali.
Per aiutarci un poco a casa nostra.
Matteo Bussola
domenica 20 settembre 2015
Qualcuno tappa male un tombino e capita che qualche altro distratto ci inciampi.
Talvolta l'inciampo passa quasi inosservato e si prosegue dritti, altre volte ti tocca riemergere dal paese delle meraviglie in cui stavi cazzeggiando mentre camminavi a naso per aria lungo sentieri che pensavi immutabili.
...................................
Esterno notte, area residenziale a sud di Milano, piovechediolamanda.
Rientrando a casa scorgo la figura di un uomo vestito molto dignitosamente.
Sta fermo. In piedi, sul marciapiede sotto la pioggia torrenziale, la testa china, sembra che aspetti qualcosa.
A quell'ora, in questo specifico triangolo di periferia, se rimani piantato sotto l'acqua devi essere uno che non ha paura di niente oppure devi avere un problema molto, molto serio oppure entrambe le cose. Rallento più per curiosità che per altro e presto mi accorgo che quell'uomo non è solo. Piano piano metto a fuoco: ce ne sono altri più o meno come lui nelle vicinanze: qualcuno è seduto sul marciapiede, qualcuno è seduto sulle panchine del parchetto lì vicino, un altro paio di privilegiati sono in piedi in una delle poche cabine telefoniche rimaste: si riparano dall'acqua. Ci sono anche una donna e al suo fianco un uomo che la copre dalla pioggia con una giacca di stoffa già fradicia.
Non fanno nulla. Sembrano aspettare.
Non parlano tra di loro. Fa freddo, piove sempre di più e vestono come se fosse estate in riviera.
Non so perché ma ho già accostato e sono giù dalla macchina. Normalmente avrei qualche timore ma in queste zone ci sono cresciuto da ragazzo e ho come un senso di sicurezza territoriale. Mi guardo intorno e decido di dirigermi verso l'unica struttura illuminata. Fuori dal cancello ci sono due pattuglie di carabinieri più un brulicare di persone, tante persone, decine e decine di persone che prima passando non avevo nemmeno notato.
Cammino stranito attraverso una ordinatissima doppia fila di uomini e donne bagnati che sembrano non notarmi, rimangono chiusi in un silenzio che quasi stordisce.
I carabinieri sono sfatti dal sonno e dalla fatica, prendono le generalità di persone che potrebbero essere i loro genitori, i loro figli. Hanno la divisa sgualcita e fradicia, la faccia di chi deve e vuole fare quello che sta facendo ma vorrebbe che non fosse necessario farlo, non in quel modo.
Non urla nessuno, come se urlare possa rompere chissà quale equilibrio, svegliare chissà quale demone.
Vedo italiani e stranieri distribuire beni di prima necessità ad altri italiani e stranieri. Non c'è distinzione di abbigliamento, non capisci subito chi è che aiuta chi. E' un cazzo di casino ma non del tutto un inferno perché manca il frastuono. Ciò che colpisce più di tutto è proprio il silenzio in cui tutto si svolge: ho sempre pensato che l'inferno fosse molto rumoroso ma mi sbagliavo. Oppure non è davvero questo l'inferno.
Mi avvicino a quello che sembra essere un volontario che d'istinto mi passa subito un piatto, poi un altro e poi un altro, è una macchina di piatti, poi alza lo sguardo e realizza che non sono uno di loro così si ferma, dice che si chiama Maurizio e che io non posso stare lì, devo essere assicurato, mentre lo dice è dispiaciuto e mi racconta che lui è il capo e mi racconta chi sono tutte queste persone.
Parla e impiatta, impiatta e spiega che i più sono singoli, uomini e donne e poi famiglie che nel bel mezzo di una notte qualunque sono stati costretti a decidere in pochi secondi cosa portare via dalle loro case. Chi ha esitato, magari per portarsi via la fotografia di mamma, è stato sorpreso dalle milizie e giustiziato sul posto. E' stato in quei concitati momenti che qualcuno di loro ha perso i genitori, altri i figli in una fuga che non ha nulla di umano, che non dovrebbe esistere su questa Terra.
Maurizio all'improvviso decide che per una volta posso fare passare una vasca di aringhe dalla cucina al banco di distribuzione e così mi coinvolge.
(e in quel delirio penso che ho sempre eretto una sorta di barriera psicologica che mi ha mantenuto empaticamente distante da situzioni del genere. Ma lì accade tutto troppo in fretta, non hai il tempo per il giudizio e del tuo giudizio sinceramente non gliene frega niente a nessuno perché col tuo inutile pregiudizio non ci si mangia, non ci si copre, non ci si lava, non ci si asciuga, non ci si ripara dalla pioggia e soprattutto non si risolve nessun problema concreto)
Chiedo a Maurizio che cosa servirebbe: serve tutto, risponde asciutto. Io gli chiedo che cosa e lui mi dice pensa a una cosa qualunque, io tentenno e lui: serve.
Spazzolini da denti? Servono. Sapone? Serve. Vestiti? Servono. Scarpe? Servono. Coperte? Servono. Cibo? Serve. Mi spiega che soprattutto serve cibo, disperatamente: deperibile, in scatola, verde, giallo, tutto.
Mi vede pensieroso e si fa serio. Forse tu non hai capito, mi dice, questi non hanno più nulla, questi stanno correndo da giorni, alcuni da settimane, passano affamati e proseguono, hanno la paura che gli morde il culo, ormai gli rimane poco altro che correre. Ci penso e questo sottintende che una volta, pochi giorni fa, avevano una vita pure loro.
E infatti serve anche una vita, magari la tua, mi dice Maurizio. Qui capisco che non è una domanda la sua: vieni qui, anche solo poche ore, mi dice. Sono come noi. Potremmo essere noi. Per noi lo faresti? C'è bisogno, siamo tutti simili tra noi, e lo dice convinto.
(e intanto penso che i sentimenti che si respirano lì dentro sono di paura, di gratitudine, di dolore per quello o per quelli che si sono perduti forse per sempre. Sono sentimenti di consapevolezza che quella è solo una tappa e che il domani li porterà in un'altro universo. Sono sentimenti di dignità. Ecco sì, si respira forte la dignità di essere umani con un nome, un cognome, una storia, delle radici, e la memoria di ciò che si è. Svestiti di tutto ma non di ciò che rende la vita degna di essere vissuta).
Gli chiedo se ci sono modalità per portare materiale oltre che presenza.
Mi guarda strano: vieni qui e svuoti il bagagliaio sul vialetto, i volontari distribuiscono in tempo reale.
Poi mi caccia perché lì non posso stare se non sono assicurato, ribadisce. Ma con 10 euro di assicurazione posso esserlo, devo andare in via Moscova a Milano, scrive velocemente un numero su un foglio che mi porge e poi mi spinge con fermezza ad andarmene: qui o agisci o sei d'impiccio.
Mentre esco guardo quei volti disperati. La maggior parte di loro è di passaggio, diretta in un altrove che non ha certo scelto su Booking.com
Mi chiedo che cosa troveranno e se troveranno il modo di usare la forza che hanno per costruire qualcosa di nuovo, qualcosa che nemmeno noi possiamo ancora immaginare.
(e penso che qui ci si danna per comprare roba che ti riempie davvero di niente, con la quale rischiamo di travestire il nulla che abbiamo paura di essere agli occhi degli altri e di noi stessi e penso che se in soli cinque secondi dovessimo scegliere cosa portare con noi per lasciare per sempre la nostra terra faremmo davvero fatica a pensare che cosa e quello farebbe la differenza tra vivere e sopravvivere).
Rillo (in questo caso su facebook)
Talvolta l'inciampo passa quasi inosservato e si prosegue dritti, altre volte ti tocca riemergere dal paese delle meraviglie in cui stavi cazzeggiando mentre camminavi a naso per aria lungo sentieri che pensavi immutabili.
...................................
Esterno notte, area residenziale a sud di Milano, piovechediolamanda.
Rientrando a casa scorgo la figura di un uomo vestito molto dignitosamente.
Sta fermo. In piedi, sul marciapiede sotto la pioggia torrenziale, la testa china, sembra che aspetti qualcosa.
A quell'ora, in questo specifico triangolo di periferia, se rimani piantato sotto l'acqua devi essere uno che non ha paura di niente oppure devi avere un problema molto, molto serio oppure entrambe le cose. Rallento più per curiosità che per altro e presto mi accorgo che quell'uomo non è solo. Piano piano metto a fuoco: ce ne sono altri più o meno come lui nelle vicinanze: qualcuno è seduto sul marciapiede, qualcuno è seduto sulle panchine del parchetto lì vicino, un altro paio di privilegiati sono in piedi in una delle poche cabine telefoniche rimaste: si riparano dall'acqua. Ci sono anche una donna e al suo fianco un uomo che la copre dalla pioggia con una giacca di stoffa già fradicia.
Non fanno nulla. Sembrano aspettare.
Non parlano tra di loro. Fa freddo, piove sempre di più e vestono come se fosse estate in riviera.
Non so perché ma ho già accostato e sono giù dalla macchina. Normalmente avrei qualche timore ma in queste zone ci sono cresciuto da ragazzo e ho come un senso di sicurezza territoriale. Mi guardo intorno e decido di dirigermi verso l'unica struttura illuminata. Fuori dal cancello ci sono due pattuglie di carabinieri più un brulicare di persone, tante persone, decine e decine di persone che prima passando non avevo nemmeno notato.
Cammino stranito attraverso una ordinatissima doppia fila di uomini e donne bagnati che sembrano non notarmi, rimangono chiusi in un silenzio che quasi stordisce.
I carabinieri sono sfatti dal sonno e dalla fatica, prendono le generalità di persone che potrebbero essere i loro genitori, i loro figli. Hanno la divisa sgualcita e fradicia, la faccia di chi deve e vuole fare quello che sta facendo ma vorrebbe che non fosse necessario farlo, non in quel modo.
Non urla nessuno, come se urlare possa rompere chissà quale equilibrio, svegliare chissà quale demone.
Vedo italiani e stranieri distribuire beni di prima necessità ad altri italiani e stranieri. Non c'è distinzione di abbigliamento, non capisci subito chi è che aiuta chi. E' un cazzo di casino ma non del tutto un inferno perché manca il frastuono. Ciò che colpisce più di tutto è proprio il silenzio in cui tutto si svolge: ho sempre pensato che l'inferno fosse molto rumoroso ma mi sbagliavo. Oppure non è davvero questo l'inferno.
Mi avvicino a quello che sembra essere un volontario che d'istinto mi passa subito un piatto, poi un altro e poi un altro, è una macchina di piatti, poi alza lo sguardo e realizza che non sono uno di loro così si ferma, dice che si chiama Maurizio e che io non posso stare lì, devo essere assicurato, mentre lo dice è dispiaciuto e mi racconta che lui è il capo e mi racconta chi sono tutte queste persone.
Parla e impiatta, impiatta e spiega che i più sono singoli, uomini e donne e poi famiglie che nel bel mezzo di una notte qualunque sono stati costretti a decidere in pochi secondi cosa portare via dalle loro case. Chi ha esitato, magari per portarsi via la fotografia di mamma, è stato sorpreso dalle milizie e giustiziato sul posto. E' stato in quei concitati momenti che qualcuno di loro ha perso i genitori, altri i figli in una fuga che non ha nulla di umano, che non dovrebbe esistere su questa Terra.
Maurizio all'improvviso decide che per una volta posso fare passare una vasca di aringhe dalla cucina al banco di distribuzione e così mi coinvolge.
(e in quel delirio penso che ho sempre eretto una sorta di barriera psicologica che mi ha mantenuto empaticamente distante da situzioni del genere. Ma lì accade tutto troppo in fretta, non hai il tempo per il giudizio e del tuo giudizio sinceramente non gliene frega niente a nessuno perché col tuo inutile pregiudizio non ci si mangia, non ci si copre, non ci si lava, non ci si asciuga, non ci si ripara dalla pioggia e soprattutto non si risolve nessun problema concreto)
Chiedo a Maurizio che cosa servirebbe: serve tutto, risponde asciutto. Io gli chiedo che cosa e lui mi dice pensa a una cosa qualunque, io tentenno e lui: serve.
Spazzolini da denti? Servono. Sapone? Serve. Vestiti? Servono. Scarpe? Servono. Coperte? Servono. Cibo? Serve. Mi spiega che soprattutto serve cibo, disperatamente: deperibile, in scatola, verde, giallo, tutto.
Mi vede pensieroso e si fa serio. Forse tu non hai capito, mi dice, questi non hanno più nulla, questi stanno correndo da giorni, alcuni da settimane, passano affamati e proseguono, hanno la paura che gli morde il culo, ormai gli rimane poco altro che correre. Ci penso e questo sottintende che una volta, pochi giorni fa, avevano una vita pure loro.
E infatti serve anche una vita, magari la tua, mi dice Maurizio. Qui capisco che non è una domanda la sua: vieni qui, anche solo poche ore, mi dice. Sono come noi. Potremmo essere noi. Per noi lo faresti? C'è bisogno, siamo tutti simili tra noi, e lo dice convinto.
(e intanto penso che i sentimenti che si respirano lì dentro sono di paura, di gratitudine, di dolore per quello o per quelli che si sono perduti forse per sempre. Sono sentimenti di consapevolezza che quella è solo una tappa e che il domani li porterà in un'altro universo. Sono sentimenti di dignità. Ecco sì, si respira forte la dignità di essere umani con un nome, un cognome, una storia, delle radici, e la memoria di ciò che si è. Svestiti di tutto ma non di ciò che rende la vita degna di essere vissuta).
Gli chiedo se ci sono modalità per portare materiale oltre che presenza.
Mi guarda strano: vieni qui e svuoti il bagagliaio sul vialetto, i volontari distribuiscono in tempo reale.
Poi mi caccia perché lì non posso stare se non sono assicurato, ribadisce. Ma con 10 euro di assicurazione posso esserlo, devo andare in via Moscova a Milano, scrive velocemente un numero su un foglio che mi porge e poi mi spinge con fermezza ad andarmene: qui o agisci o sei d'impiccio.
Mentre esco guardo quei volti disperati. La maggior parte di loro è di passaggio, diretta in un altrove che non ha certo scelto su Booking.com
Mi chiedo che cosa troveranno e se troveranno il modo di usare la forza che hanno per costruire qualcosa di nuovo, qualcosa che nemmeno noi possiamo ancora immaginare.
(e penso che qui ci si danna per comprare roba che ti riempie davvero di niente, con la quale rischiamo di travestire il nulla che abbiamo paura di essere agli occhi degli altri e di noi stessi e penso che se in soli cinque secondi dovessimo scegliere cosa portare con noi per lasciare per sempre la nostra terra faremmo davvero fatica a pensare che cosa e quello farebbe la differenza tra vivere e sopravvivere).
Rillo (in questo caso su facebook)
sabato 15 agosto 2015
mercoledì 29 luglio 2015
Avrei voluto scrivere del mio cuore che ora fatica a battere,
dei troppi farmaci con cui il mio fegato adesso cerca di combattere.
Avrei voluto scrivere di questa vita insonne, di questi sogni feriti, di questi baci traditi.
Ma la testa mi fa male e gli occhi mi bruciano.
Sono una bambina, poi guerriera, sono una donna, poi bambina.
Avrei voluto dire, avrei voluto fare, avrei voluto amare...
Ma la testa mi fa male e gli occhi mi bruciano.
Avrei voluto scrivere dei miei sogni che ora faticano ad arrivare,
dei troppi volti con cui il mio corpo cerca di scappare.
Avrei voluto scrivere di questa vita esaltata, di queste ferite baciate, di questi tradimenti sognati.
Ma la testa mi fa male e gli occhi mi bruciano.
Sono un fantasma, poi pazzia, sono una donna, poi basta.
Avrei voluto vincere, avrei voluto volare, avrei voluto vivere...
Ma la testa mi fa male e gli occhi mi bruciano.
Avrei voluto scrivere e invece come al solito farnetico un po'.
wild (lifeart)
dei troppi farmaci con cui il mio fegato adesso cerca di combattere.
Avrei voluto scrivere di questa vita insonne, di questi sogni feriti, di questi baci traditi.
Ma la testa mi fa male e gli occhi mi bruciano.
Sono una bambina, poi guerriera, sono una donna, poi bambina.
Avrei voluto dire, avrei voluto fare, avrei voluto amare...
Ma la testa mi fa male e gli occhi mi bruciano.
Avrei voluto scrivere dei miei sogni che ora faticano ad arrivare,
dei troppi volti con cui il mio corpo cerca di scappare.
Avrei voluto scrivere di questa vita esaltata, di queste ferite baciate, di questi tradimenti sognati.
Ma la testa mi fa male e gli occhi mi bruciano.
Sono un fantasma, poi pazzia, sono una donna, poi basta.
Avrei voluto vincere, avrei voluto volare, avrei voluto vivere...
Ma la testa mi fa male e gli occhi mi bruciano.
Avrei voluto scrivere e invece come al solito farnetico un po'.
wild (lifeart)
lunedì 27 luglio 2015
Miniguida alla ragazza friulana
1. Non darle della milanese. Sì, ok, NESSUNO sa come suoni il friulano, a parte i friulani. Mandi Mandi è stato inghiottito dalle nebbie del tempo, Pizzul non l'avete mai sgamato, Bearzot non ve lo ricordate, Zoff parla poco e non badate a me, io ormai sono perduta. Però se volete vi faccio un Souncloud di mia sorella. Quello è accento friulano.
2. Si dice Friùli, non Frìuli. Non è difficile. Ripeti con me, Friùli, Friùli, Friùli. Ok, mi arrendo. Sono quasi dodici anni che provo a insegnarlo al romano con cui divido casa e ancora si sbaglia.
3. Non fare lo spandone. "Spandone" è lo sbruffone friulano, almeno dalle mie parti. Se il cazzaro romano alla fine gode di una certa simpatia perché anima e rallegra la serata, lo spandone viene guardato con severo disprezzo dalla friulana, che nel DNA ha l'efficienza di gente che si è alzata per generazioni alle cinque di mattina per portare le vacche sul Rest e non ha tempo per le tue scemenze.
4. Sì, beviamo la grappa e no, non ci fa niente.
5. Le triestine non sono friulane, né linguisticamente né culturalmente. I triestini hanno un passato cosmopolita, un dialetto pieno di termini sloveni ed ebraici, hanno dato da bere a Joyce, Svevo e Saba, hanno il mare e trovano ogni scusa e modo per andarci. Si offendono le triestine e si offendono pure le friulane. Non fare confusione.
6. Se non reggi il frico, stai a casa.
7. Il friulano non ha la parola "felicità": puoi essere al massimo contento, ma felice no. Le friulane hanno alle spalle millenni di privazioni, fatica, invasioni, pellagra, migrazioni in altri continenti, morti nelle miniere del Belgio, bambole fatte con le pannocchie e tutta una letteratura della povertà. Il massimo dell'intellettualità espressa dal Friuli è Pasolini, ormai al 70% appropriato dai romani e per il restante 30% citato a sproposito come cantore dei poveri. Quindi le aspettative sono talmente basse che basta pochissimo per andare da zero a cento, anche solo una giornata al mare messa bene.
8. Le friulane sono strutturatissime. Studiano, lavorano, si fanno un mazzo tanto. Non vogliono i tuoi soldi, ma se ne vuoi frequentare una non ti conviene essere pigro: saresti schiacciato sotto il peso della sua quotidiana disapprovazione.
9. C'è un detto locale che più o meno recita: "L'ereditât dal Friûl, panza tetes e cûl". Mediamente mangiamo come camioniste e abbiamo avantreni e retrotreni abbinati (chi più, chi meno). Come sopra: se non reggi il frico, stai a casa.
10. Se ce ne siamo andate dal Friuli è perché cercavamo qualcosa che in Friuli non c'era: lavoro creativo, principalmente, ma anche mare, sole, o più banalmente la felicità che la nostra lingua non contempla. Una volta fuori da lì, non vogliamo più vivere come vivevamo prima. Per cui fai un po' tu. Ma non fare lo spandone.
Giulia Blasi su fb
2. Si dice Friùli, non Frìuli. Non è difficile. Ripeti con me, Friùli, Friùli, Friùli. Ok, mi arrendo. Sono quasi dodici anni che provo a insegnarlo al romano con cui divido casa e ancora si sbaglia.
3. Non fare lo spandone. "Spandone" è lo sbruffone friulano, almeno dalle mie parti. Se il cazzaro romano alla fine gode di una certa simpatia perché anima e rallegra la serata, lo spandone viene guardato con severo disprezzo dalla friulana, che nel DNA ha l'efficienza di gente che si è alzata per generazioni alle cinque di mattina per portare le vacche sul Rest e non ha tempo per le tue scemenze.
4. Sì, beviamo la grappa e no, non ci fa niente.
5. Le triestine non sono friulane, né linguisticamente né culturalmente. I triestini hanno un passato cosmopolita, un dialetto pieno di termini sloveni ed ebraici, hanno dato da bere a Joyce, Svevo e Saba, hanno il mare e trovano ogni scusa e modo per andarci. Si offendono le triestine e si offendono pure le friulane. Non fare confusione.
6. Se non reggi il frico, stai a casa.
7. Il friulano non ha la parola "felicità": puoi essere al massimo contento, ma felice no. Le friulane hanno alle spalle millenni di privazioni, fatica, invasioni, pellagra, migrazioni in altri continenti, morti nelle miniere del Belgio, bambole fatte con le pannocchie e tutta una letteratura della povertà. Il massimo dell'intellettualità espressa dal Friuli è Pasolini, ormai al 70% appropriato dai romani e per il restante 30% citato a sproposito come cantore dei poveri. Quindi le aspettative sono talmente basse che basta pochissimo per andare da zero a cento, anche solo una giornata al mare messa bene.
8. Le friulane sono strutturatissime. Studiano, lavorano, si fanno un mazzo tanto. Non vogliono i tuoi soldi, ma se ne vuoi frequentare una non ti conviene essere pigro: saresti schiacciato sotto il peso della sua quotidiana disapprovazione.
9. C'è un detto locale che più o meno recita: "L'ereditât dal Friûl, panza tetes e cûl". Mediamente mangiamo come camioniste e abbiamo avantreni e retrotreni abbinati (chi più, chi meno). Come sopra: se non reggi il frico, stai a casa.
10. Se ce ne siamo andate dal Friuli è perché cercavamo qualcosa che in Friuli non c'era: lavoro creativo, principalmente, ma anche mare, sole, o più banalmente la felicità che la nostra lingua non contempla. Una volta fuori da lì, non vogliamo più vivere come vivevamo prima. Per cui fai un po' tu. Ma non fare lo spandone.
Giulia Blasi su fb
domenica 26 luglio 2015
Vorrei prenderti a nolo
come una videocassetta
arrivare con la tessera
sceglierti - è sempre bello sceglierti
sul display azzurrino
tra migliaia di affascinanti concorrenti -
vederti uscire dal distributore automatico
con le espadrillas in una mano
e la giacchetta leggera nell'altra.
"Puoi tenermi un solo giorno"
mi diresti appena salita in auto
come fai tutte le volte
tutte
distruttrice di poesie
e io giocherei in tasca con le monetine
raccolte dai carrelli della spesa
di tutte le coop le esselunga le conad
e perfino gli eurospin del mondo
appositamente per pagare le multe
tenerti oltre la mezzanotte
addormentata sul divano
respirante
bellissima.
Ivano Porpora
come una videocassetta
arrivare con la tessera
sceglierti - è sempre bello sceglierti
sul display azzurrino
tra migliaia di affascinanti concorrenti -
vederti uscire dal distributore automatico
con le espadrillas in una mano
e la giacchetta leggera nell'altra.
"Puoi tenermi un solo giorno"
mi diresti appena salita in auto
come fai tutte le volte
tutte
distruttrice di poesie
e io giocherei in tasca con le monetine
raccolte dai carrelli della spesa
di tutte le coop le esselunga le conad
e perfino gli eurospin del mondo
appositamente per pagare le multe
tenerti oltre la mezzanotte
addormentata sul divano
respirante
bellissima.
Ivano Porpora
martedì 14 luglio 2015
Protocollo 894
È su uno scoglio avvolto in una coperta termica,
sdraiato nel doppiofondo di un camion,
galleggia a faccia sotto nello stretto di Sicilia,
cerca i pezzi della sua gamba nel mercato di Gaza,
è sulle punte, al semaforo,
lava i vetri di un suv troppo alto per i suoi nove anni,
ha una cintura di tritolo,
dorme in macchina da due mesi,
fa la badante a un vecchio che le mette le mani addosso,
raccoglie pomodori a Caserta,
vende fazzoletti a un incrocio,
viaggia con un ovulo nello stomaco.
Gianni Solla
È su uno scoglio avvolto in una coperta termica,
sdraiato nel doppiofondo di un camion,
galleggia a faccia sotto nello stretto di Sicilia,
cerca i pezzi della sua gamba nel mercato di Gaza,
è sulle punte, al semaforo,
lava i vetri di un suv troppo alto per i suoi nove anni,
ha una cintura di tritolo,
dorme in macchina da due mesi,
fa la badante a un vecchio che le mette le mani addosso,
raccoglie pomodori a Caserta,
vende fazzoletti a un incrocio,
viaggia con un ovulo nello stomaco.
Gianni Solla
lunedì 13 luglio 2015
I sondaggisti: inetti. Politici nazionali: chiaramente incapaci. Politici internazionali: stupidi pasticcioni. Attori: cani. Calciatori: pippe. Giornalisti: idioti patentati. Scrittori e registi: per carità. Imprenditori: non ci arrivano proprio. Professori: incapaci di insegnare. Sindacalisti: sorpassati e inutili. In maniera del tutto casuale su facebook sono in contatto con i massimi esperti mondiali in mestieri degli altri.
Massimo Morelli
Massimo Morelli
domenica 12 luglio 2015
Se fosse un racconto, sarebbe un racconto che si svolge in dodici ore. Si intitolerebbe "Tango 77 in otto minuti" e i personaggi sarebbero fantastici: il tassista pugile che vuole fare a mazzate con tutta la Milano by night, il tassista chiattone che lo chiama mongolo e per paura delle mazzate poi rettifica: uè, voglio dire come l'abitante della Mongolia, l'appuntato meridionale che raccoglie la denuncia in inglese e non capisce e si illumina quando sente Louis Vuitton, che quello lo sa scrivere perché pure sua moglie tiene la borsetta, e il maresciallo che fa le correzioni e noi le correzioni delle correzioni, i piantoni con la barba da hipster, il chioschetto notturno degli hamburger e salamelle, il caldo che avvolge tutto e si infila a riempire e gonfiare dall'interno tutti i tempi morti. E in mezzo la storia del culatello, che va stagionato nella stalla dei maiali con vista sul Po. Se non c'è il Po non se ne fa nulla. E quella del vegano che combatte contro le tentazioni della carne femminile. Se avessi tempo io la scriverei 'sta storia. E sarebbe divertente, giuro.
Brunella
Brunella
mercoledì 1 luglio 2015
Nel febbraio del 2011 un tunisino a bordo di un’auto sfondò una vetrata del Terminal 1 di Malpensa. Scese dal veicolo brandendo un coltello e seminò il panico finché non venne immobilizzato e arrestato dalla polizia.
Non molto tempo dopo mi trovavo con degli sconosciuti compagni di viaggio in una navetta che mi portava proprio da quell’aeroporto verso uno dei suoi vari parcheggi-satellite. L’autista moriva dalla voglia di arrabbiarsi. Iniziò a tenere un comizio su quegli “stronzi arabi musulmani di merda figli di puttana” che mettevano a repentaglio la sua vita: lui era un padre di famiglia che lavorava ogni giorno sul tragitto da e per l’aeroporto e non si sentiva al sicuro. Si sentiva talmente in pericolo che “ormai non basta più nemmeno votare Lega”.
Essendo i miei geni abbastanza confusi, ho la fortuna di non riuscire quasi mai a venire offeso al 100% da qualsiasi genere di provocazione etnico-territorial-campanilista. Non che mi capiti spesso di trovare persone inclini a insultare i Predazzani, peraltro.
In ogni caso quel giorno, con la mia faccia da brava persona, i miei vestiti da tizio qualunque e il mio smisurato autocompiacimento, impugnai la cortesia che porto sempre con me per difendermi dagli imprevisti e dissi all’autista: “naturalmente lei ha diritto alle sue opinioni, ma la pregherei di esprimerle con un linguaggio diverso perché in questo momento, anche se non lo sa, sta insultando mio padre e metà della mia famiglia.”
L’autista mi guardò dallo specchietto nel tentativo di capire dove stessero andando a schiantarsi le sue certezze. Gli spiegai brevemente la mia condizione di baùscia del Sahel. A quel punto, grazie a Dio, hamdullah, iniziò a farfugliare imbarazzatissimo le sue scuse e ad affannarsi verso la più vicina uscita d’emergenza: “nel mio palazzo abita una marocchina ed è un’ottima persona, andiamo d’accordissimo.”
Lasciando da parte l’ironia, non voglio affatto contestare la banalità della difesa-passepartout “ho un migliore amico ebreo disabile transgender”. Voglio, anzi, soffermarmi sull’evidente sincerità delle sue scuse.
Quell’autista era una brava persona. Era una delle tante brave persone che hanno innanzitutto delle priorità affettive, con la responsabilità di mantenerle e garantire loro un presente ed un futuro, in un contesto che non incoraggia la speranza e non propone un ideale. Era una delle tante brave persone che non hanno il tempo, la voglia e le energie necessarie per compiere il primo e più importante atto di responsabilità individuale: pensare.
Che differenza c’è tra la vicina marocchina e il tunisino che semina il terrore in aeroporto? C’è tutta la differenza di questo mondo, se ci pensi. Ma se non ci pensi, sono entrambi degli stronzi arabi musulmani di merda figli di puttana.
È un momento difficile per la democrazia, che si trova di fronte alle proprie contraddizioni.
In un paese come l’Italia, il leader di destra del partito di sinistra (che a mio personalissimo parere al momento rimane comunque l’alternativa più sensata all’astensione) mal tollera il Parlamento e sembra immaginare se stesso nel ruolo di piccolo despota illuminato.
In un paese come la Tunisia, una donna della mia famiglia, persona di indubbia apertura mentale che insegna sociologia ed è stata la prima a gioire per la Rivoluzione dei Gelsomini, a pochi anni dal crollo del regime mi dice sottovoce: “ma se ci fosse stata la democrazia, invece di Bourguiba, e avessero sottoposto i diritti delle donne al vaglio popolare, credi che ora io sarei una docente universitaria?”
Le statistiche (almeno quelle che ho trovato in giro) ci dicono che è vero che la maggior parte dei crimini contro la proprietà è compiuta da non italiani. Ma ci dicono anche che non è vero che gli extracomunitari sono un fardello economico: ciò che spende lo Stato per loro è inferiore alla ricchezza creata dalle attività professionali ascrivibili a cittadini extracomunitari che operano nel nostro Paese.
La cronaca, peraltro, ci svela che il tunisino di cui sopra non era un terrorista, ma uno squilibrato. Ma il mio autista quel pezzo della notizia se l’era perso, non l’aveva letto, o forse non aveva avuto la pazienza di farlo collidere con le sue certezze.
Io ogni volta che mi chiedo cosa posso fare nel mio piccolo, per il bene della democrazia, mi rispondo due cose.
La prima è fare lo sforzo di pensare, e maledizione a quant’è difficile invece non affidarsi istintivamente alle vulgate, soprattutto a quelle che provengono dalla “nostra” parte, qualunque essa sia.
La seconda, in questo momento, è andare in vacanza in Tunisia.
Karim Ayed
Non molto tempo dopo mi trovavo con degli sconosciuti compagni di viaggio in una navetta che mi portava proprio da quell’aeroporto verso uno dei suoi vari parcheggi-satellite. L’autista moriva dalla voglia di arrabbiarsi. Iniziò a tenere un comizio su quegli “stronzi arabi musulmani di merda figli di puttana” che mettevano a repentaglio la sua vita: lui era un padre di famiglia che lavorava ogni giorno sul tragitto da e per l’aeroporto e non si sentiva al sicuro. Si sentiva talmente in pericolo che “ormai non basta più nemmeno votare Lega”.
Essendo i miei geni abbastanza confusi, ho la fortuna di non riuscire quasi mai a venire offeso al 100% da qualsiasi genere di provocazione etnico-territorial-campanilista. Non che mi capiti spesso di trovare persone inclini a insultare i Predazzani, peraltro.
In ogni caso quel giorno, con la mia faccia da brava persona, i miei vestiti da tizio qualunque e il mio smisurato autocompiacimento, impugnai la cortesia che porto sempre con me per difendermi dagli imprevisti e dissi all’autista: “naturalmente lei ha diritto alle sue opinioni, ma la pregherei di esprimerle con un linguaggio diverso perché in questo momento, anche se non lo sa, sta insultando mio padre e metà della mia famiglia.”
L’autista mi guardò dallo specchietto nel tentativo di capire dove stessero andando a schiantarsi le sue certezze. Gli spiegai brevemente la mia condizione di baùscia del Sahel. A quel punto, grazie a Dio, hamdullah, iniziò a farfugliare imbarazzatissimo le sue scuse e ad affannarsi verso la più vicina uscita d’emergenza: “nel mio palazzo abita una marocchina ed è un’ottima persona, andiamo d’accordissimo.”
Lasciando da parte l’ironia, non voglio affatto contestare la banalità della difesa-passepartout “ho un migliore amico ebreo disabile transgender”. Voglio, anzi, soffermarmi sull’evidente sincerità delle sue scuse.
Quell’autista era una brava persona. Era una delle tante brave persone che hanno innanzitutto delle priorità affettive, con la responsabilità di mantenerle e garantire loro un presente ed un futuro, in un contesto che non incoraggia la speranza e non propone un ideale. Era una delle tante brave persone che non hanno il tempo, la voglia e le energie necessarie per compiere il primo e più importante atto di responsabilità individuale: pensare.
Che differenza c’è tra la vicina marocchina e il tunisino che semina il terrore in aeroporto? C’è tutta la differenza di questo mondo, se ci pensi. Ma se non ci pensi, sono entrambi degli stronzi arabi musulmani di merda figli di puttana.
È un momento difficile per la democrazia, che si trova di fronte alle proprie contraddizioni.
In un paese come l’Italia, il leader di destra del partito di sinistra (che a mio personalissimo parere al momento rimane comunque l’alternativa più sensata all’astensione) mal tollera il Parlamento e sembra immaginare se stesso nel ruolo di piccolo despota illuminato.
In un paese come la Tunisia, una donna della mia famiglia, persona di indubbia apertura mentale che insegna sociologia ed è stata la prima a gioire per la Rivoluzione dei Gelsomini, a pochi anni dal crollo del regime mi dice sottovoce: “ma se ci fosse stata la democrazia, invece di Bourguiba, e avessero sottoposto i diritti delle donne al vaglio popolare, credi che ora io sarei una docente universitaria?”
Le statistiche (almeno quelle che ho trovato in giro) ci dicono che è vero che la maggior parte dei crimini contro la proprietà è compiuta da non italiani. Ma ci dicono anche che non è vero che gli extracomunitari sono un fardello economico: ciò che spende lo Stato per loro è inferiore alla ricchezza creata dalle attività professionali ascrivibili a cittadini extracomunitari che operano nel nostro Paese.
La cronaca, peraltro, ci svela che il tunisino di cui sopra non era un terrorista, ma uno squilibrato. Ma il mio autista quel pezzo della notizia se l’era perso, non l’aveva letto, o forse non aveva avuto la pazienza di farlo collidere con le sue certezze.
Io ogni volta che mi chiedo cosa posso fare nel mio piccolo, per il bene della democrazia, mi rispondo due cose.
La prima è fare lo sforzo di pensare, e maledizione a quant’è difficile invece non affidarsi istintivamente alle vulgate, soprattutto a quelle che provengono dalla “nostra” parte, qualunque essa sia.
La seconda, in questo momento, è andare in vacanza in Tunisia.
Karim Ayed
giovedì 14 maggio 2015
Mio nonno doveva chiedere l'autorizzazione per esportare i suoi prodotti nelle colonie, cosa che gli avrebbe consentito di ampliare l'attività e dare lavoro ad altre persone: l'autorizzazione gli fu negata. Motivazione ufficiale: nessuna. Ma mio nonno il vero motivo lo sapeva: non era iscritto al PNF.
Perché dittatura vuol dire anche queste piccole cose, che non rimangono nei libri di storia: persone misere dotate di un'autorità immeritata, che si sono conquistata solo grazie al fanatismo e al servilismo, e che esercitano questa autorità in maniera arbitraria e vessatoria, perché la Legge ed il Diritto semplicemente non esistono più.
Lester
Perché dittatura vuol dire anche queste piccole cose, che non rimangono nei libri di storia: persone misere dotate di un'autorità immeritata, che si sono conquistata solo grazie al fanatismo e al servilismo, e che esercitano questa autorità in maniera arbitraria e vessatoria, perché la Legge ed il Diritto semplicemente non esistono più.
Lester
domenica 3 maggio 2015
Amore in differita
Io e Anita abbiamo un fuso orario di tre minuti, quindi è un casino sincronizzarci, Anita è tre minuti avanti di me in tutto quello che fa, o forse sono io che sono indietro di tre minuti a lei. Se ad esempio la bacio io, il mio bacio non le arriva mai , è una cosa strana, parliamo assieme con discorsi apparentemente senza senso, come i discorsi di Ghezzi su blob, e a vedermi sembra che parlo da solo, a volte però ci intercettiamo, soprattutto quando stiamo abbracciati immobili per più di tre minuti e l’aria diventa una sottile pelle abbracciante. Se sto guardando la tv e allo stesso tempo sento una sua carezza sul collo, capisco che è arrivata da tre minuti, ma lei nel frattempo sta già facendo altre cose, è sempre una sorpresa,quando stiamo vicini siamo destinati a stare a tre minuti di lontananza, una breve latenza che non ci farà mai incontrare nei modi consueti, siamo come apparizioni. Per stare sul leggero, per evitare di fare l’amore mentre stiamo facendo altre cose, Anita lo scrive su un biglietto, allora mi faccio trovare già preparato, e anche se non la vedo , quando vengo mi appare, lo facciamo davvero ne sono sicuro, ci lasciamo biglietti in continuazione, anche se a conti fatti non mi è mai apparsa tutta intera, possiamo solo leggere quello che ci siamo scritti e crederci sulla fiducia e sui segni che ci lasciamo sulla pelle.
Andrea Gruccia
Andrea Gruccia
giovedì 23 aprile 2015
Una volta, prima che ci fosse tutto questo, esistevano i blog. E ci si leggeva, ci si commentava, ci si conosceva, ci si frequentava, talvolta ci si sposava pure, tra blogger, mettendo al mondo dei bambini figli di blogger. Con i blogger si facevano un sacco di cose che non erano semplicemente "eventi". Si costruivano progetti, si disegnavano traiettorie, si andava tutti insieme a Genova, a Torino, a Napoli. Ecco, a me tutto questo oggi manca molto. Con Fabrizio "Gilgamesh" ci abbiamo fatto tutti insieme un gran pezzo di strada, anni di grande fermento letterario, molto innovativi. Come ho detto, anni che mi mancano molto. E molto li rimpiango. Mi sentivo parte di una comunità molto diversa da questa di Facebook. A Fabrizio, che improvvisamente non c'è più ma magari è diventato un Bodhisattva, credo che dedicheremo una birra e più tardi un’altra ancora.
Alla vostra salute
Brunella su fb
Alla vostra salute
Brunella su fb
venerdì 17 aprile 2015
una volta ho lasciato un fidanzato che nei messaggi chiudeva ogni frase con i puntini di sospensione. Cioè, ovviamente non è stato quello il motivo della rottura, ma a ripensarci era un bel campanello d’allarme, tanto più che ne metteva regolarmente due e non tre).
Chiara (doppioverso)
Chiara (doppioverso)
mercoledì 15 aprile 2015
Friendfeed è morto davvero. L'unico social network che abbia mai avuto un senso, un posto in cui essere Vip non serviva a un cazzo, in cui uno scemo era semplicemente uno scemo e un coglione un coglione. Un posto in cui le opinioni non avevano tutte lo stesso valore, perché le opinioni-opinioni si separavano automaticamente, come per una misteriosa forma di mitosi, dalle opinioni-cazzate. Su Friendfeed nessuno avrebbe mai potuto pensare di pubblicare un articolo complottista, una bufala, una scemenza, senza prendersi un vaffanculo didattico, né di riportare una tesi approssimativa senza sorbirsi quatrocentrottanta commenti in grado di fare la punta al cazzo pure al secondo principio della termodinamica. Friendfeed è stato un posto, un luogo, non un social network. Un social network è questa merda di Facebook, o quell'aborto di Twitter, sono strumenti in grado di appiattire tutto, di far sentire l'imbecille una persona normale e la persona normale un imbecille. Questi social network sono come la vita, non aggiungono niente e non tolgono niente; ci trovi dentro quello che crede alle scie chimiche e quello che posta il buongiorno sette volte al giorno; e non c'è modo di uscirne diversi. Su Friendfeed le idee entravano in un modo e uscivano in un altro. Friendfeed era un ambiente difficile, tutto era iperbolico, ciò che era leggero diventava pesantissimo, ciò che era pesante diventava una sciocchezza da bar. Si scherzava sulla morte e si litigava per il colore di un divano. Su Friendfeed ho conosciuto fenomeni veri, artisti, persone realmente geniali e persone di una bontà non umana. Anche gli scemi su Friendfeed erano estremi. Uno scemo su Facebook si limita a scrivere cazzate, su Friendfeed uno scemo era in grado di costruire una storia finta, di sostenerla, di cambiarsi la vita per giustificarla e poi di scomparire nel nulla per non “perdere il flame”. Probabilmente Friendfeed era solo un filtro che desaturava la realtà e la mostrava per quello che era, con lo sguardo cinico e disilluso di un cane vecchio che ti piscia sul mocassino di pelle di cane. Friendfeed ha segnato un'epoca, almeno la mia, sette anni di risate, di discussioni, di persone conosciute, di persone incontrate, di amicizie e di smadonnamenti roboanti, di condivisione di una certa idea di realtà. Ora è finita e spiegare Friendfeed a chi non c'era, spiegarlo qui su Facebook tra l'altro, è inutile e paradossale. Quanto a chi c'era, beh, ci troviamo in giro, su questi social imperfetti o nella vita di tutti i giorni, e ci riconosceremo perché saremo sempre quelli seduti scomodi, a trattenere bestemmie, giudizi universali e benaltrismi non euclidei. Grazie di tutto socialino dell'odio, sei stato la cosa più bella di Internet, la cosa più divertente di questi anni, una delle cose più belle di qualsiasi cosa.
Massimo Santamicone
Massimo Santamicone
venerdì 27 marzo 2015
Questa mattina sono uscito dal mio condominio sulla spiaggia piatta e sinuosa, e ho fatto una passeggiata, in calzoncini da bagno, senza camicia. E ho pensato che uno degli effetti naturali della vita è quello di ricoprirti con uno stato sottile di... di che cosa? Una pellicola? Un residuo di tutte le cose che hai fatto e hai detto e sei stato e su cui ti sei smarrito? Non ne sono certo. Ma si è accumulata su di te, da tanto tempo, e solo di rado lo sai, se non che ogni tanto per qualche ragione o opportunità inaspettata, ne esci, - per un'ora o solo per un istante - e improvvisamente ti senti abbastanza bene. E in quell'istante magico capisci da quanto tempo è che non ti senti in quel modo. Sei stato malato, ti chiedi. La vita stesa è una malattia, una sindrome? Chi lo sa? Tutti ci siamo sentiti così, ne sono sicuro, perché io non potrei sentire quello che centinaia di milioni di altri cittadini non hanno potuto sentire.
E all'improvviso, così, ne sei fuori, fuori da quella copertura, da quella pelle di vita, come quando eri bambino. E pensi: ecco, così è come devo essere già stato, una volta nella mia vita, ma allora non lo sapevi e non te ne ricordi neanche: una sensazione di vento sulle guance e sulle braccia, il senso di essere libero, sciolto, di fluttuare leggero. E visto che è da tanto che non ti senti così, questa volta vuoi farlo durare, il bagliore di questo momento, quest'aria fresca, questa vita nuova, in modo da conservarne la sensazione, perché quando tornerà potrà essere troppo tardi. Forse sarai semplicemente troppo vecchio. E naturalmente, potrebbe anche essere l'ultima volta che ti senti così.
Richard Ford, Sportswriter (traduzione di Carlo Oliva)
E all'improvviso, così, ne sei fuori, fuori da quella copertura, da quella pelle di vita, come quando eri bambino. E pensi: ecco, così è come devo essere già stato, una volta nella mia vita, ma allora non lo sapevi e non te ne ricordi neanche: una sensazione di vento sulle guance e sulle braccia, il senso di essere libero, sciolto, di fluttuare leggero. E visto che è da tanto che non ti senti così, questa volta vuoi farlo durare, il bagliore di questo momento, quest'aria fresca, questa vita nuova, in modo da conservarne la sensazione, perché quando tornerà potrà essere troppo tardi. Forse sarai semplicemente troppo vecchio. E naturalmente, potrebbe anche essere l'ultima volta che ti senti così.
Richard Ford, Sportswriter (traduzione di Carlo Oliva)
giovedì 12 marzo 2015
Vostro onore
Assolto. “Ridategli l’onorabilità”, dicono i suoi e anche vari avveduti garantisti che amano l’obiettività.
In effetti è stato assolto. Perché non è reato e non è disonorevole:
– andare a puttane da Presidente del Consiglio
– anzi finanziare un giro di prostituzione in casa propria
– credere a una randagia qualsiasi che gli dice di essere la nipote di Mubarak
– fare votare questa supposta parentela al Parlamento
– non accorgersi che era minorenne
– e far fare una figura di merda all’intera Italia a livello mondiale.
In effetti per gli standard morali di questo Paese dove sta il reato, dove sta il disonore?
Posted on 11 marzo 2015 by Lele
In effetti è stato assolto. Perché non è reato e non è disonorevole:
– andare a puttane da Presidente del Consiglio
– anzi finanziare un giro di prostituzione in casa propria
– credere a una randagia qualsiasi che gli dice di essere la nipote di Mubarak
– fare votare questa supposta parentela al Parlamento
– non accorgersi che era minorenne
– e far fare una figura di merda all’intera Italia a livello mondiale.
In effetti per gli standard morali di questo Paese dove sta il reato, dove sta il disonore?
Posted on 11 marzo 2015 by Lele
mercoledì 25 febbraio 2015
He talked a lot about the past, and I gathered that he wanted to recover something, some idea of himself perhaps, that had gone into loving Daisy. His life had been confused and disordered since then, but if he could once return to a certain starting place and go over it all slowly, he could find out what that thing was...
The Great Gatsby, Francis Scott Fitzgerald
--
Parlò molto del passato, e ne dedussi che cercava di ritrovare qualcosa, forse un concetto di se stesso che era scomparso nell'amore per Daisy. Da allora la sua vita era stata confusa e disordinata; ma se poteva ritornare a un certo punto di partenza e ricominciare lentamente tutto da capo, sarebbe riuscito a scoprire qual era la cosa che cercava...
Il grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald (traduzione di Fernanda Pivano)
The Great Gatsby, Francis Scott Fitzgerald
--
Parlò molto del passato, e ne dedussi che cercava di ritrovare qualcosa, forse un concetto di se stesso che era scomparso nell'amore per Daisy. Da allora la sua vita era stata confusa e disordinata; ma se poteva ritornare a un certo punto di partenza e ricominciare lentamente tutto da capo, sarebbe riuscito a scoprire qual era la cosa che cercava...
Il grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald (traduzione di Fernanda Pivano)
domenica 25 gennaio 2015
Dehors, je pris le soleil en pleine gueule. L'impression de revenir à la vie. La vraie vie. Où le bonheur est une accumulation de petits riens insignifiants. Un rayon de soleil, un sourire, du linge qui sèche à une fenêtre, un gamin faisant un drible avec une boîte de conserve, un air de Vincent Scotto, un léger coup de vent sous la jupe d'une femme...
Jean-Claude Izzo, Total Khéops
--
Fuori, il sole mi inondò il viso. L'impressione di tornare alla vita. La vera vita. Dove la felicità è un insieme di piccoli fatti insignificanti. Un raggio di sole, un sorriso, la biancheria stesa a una finestra, un bambino che gioca a calcio con una scatola di conserva, un'aria di Vincent Scotto, un leggero colpo di vento sotto la gonna di una donna...
Jean-Claude Izzo, Casino totale (traduzione di Barbara Ferri)
Jean-Claude Izzo, Total Khéops
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Fuori, il sole mi inondò il viso. L'impressione di tornare alla vita. La vera vita. Dove la felicità è un insieme di piccoli fatti insignificanti. Un raggio di sole, un sorriso, la biancheria stesa a una finestra, un bambino che gioca a calcio con una scatola di conserva, un'aria di Vincent Scotto, un leggero colpo di vento sotto la gonna di una donna...
Jean-Claude Izzo, Casino totale (traduzione di Barbara Ferri)
giovedì 22 gennaio 2015
La tesi del complotto degli illuminati da sempre affascina e soprattutto spiega con semplicità fatti molto complessi, per capire i quali è necessario studiare, approfondire, ascoltare, leggere, confrontarsi.
Il successo del complottismo è facile da capire: offre facili verità senza poter essere smentito.
Andrea Alicandro, il manifesto (grazie a Luca Vanz)
Il successo del complottismo è facile da capire: offre facili verità senza poter essere smentito.
Andrea Alicandro, il manifesto (grazie a Luca Vanz)
mercoledì 14 gennaio 2015
Mi vedo le punte dei piedi. Riesco ad allacciare le stringhe in scioltezza. Indosso i miei vecchi jeans. Non metto più le calze contenitive. Non dormo più con tre cuscini nelle posizioni più assurde. Ho quasi ricominciato a dormire prona, ma le mie doti da Anitona non consentono ancora una posizione comoda. Non mi alzo più a fare pipì la notte, e non mi sembra vero, anche se questo non ha risolto i problemi di sonno. Devo mettere i tutori ai polsi la notte per il maledetto nervo mediano (vedi alla voce spider-mum).
Ho acquisito poteri soprannaturali.
Faccio latte.
Vedo al buio, e sono in grado di cambiare un pannolino (anche lavabile) nella semi oscurità con tempi da pit-stop di F1.
Paro quasi sempre lo zampillo a fontana.
Riconosco tre tipi di pianto.
Capto in maniera selettiva precisi ultrasuoni premonitori di imminente risveglio, anche se mi trovo in fase di sonno profondo.
Riesco a cadere in sonno profondo in meno di dieci secondi.
Riesco a terminare un intero pasto in meno di tre minuti.
Riesco a stare perfettamente immobile che nemmeno uno yogi...
Sono in grado di ripetere all'infinito la stessa canzone per calmarti.
In due mesi cambiano tante cose.
I tuoi sguardi.
I tuoi primi sorrisi.
Le tue pieghe da shar pei e i tuoi bracciali di ciccia.
Il mio cuore batte forte quando mi incanto a guardarti, e mi commuovo.
<3 inostriduemesi
M.M.
Ho acquisito poteri soprannaturali.
Faccio latte.
Vedo al buio, e sono in grado di cambiare un pannolino (anche lavabile) nella semi oscurità con tempi da pit-stop di F1.
Paro quasi sempre lo zampillo a fontana.
Riconosco tre tipi di pianto.
Capto in maniera selettiva precisi ultrasuoni premonitori di imminente risveglio, anche se mi trovo in fase di sonno profondo.
Riesco a cadere in sonno profondo in meno di dieci secondi.
Riesco a terminare un intero pasto in meno di tre minuti.
Riesco a stare perfettamente immobile che nemmeno uno yogi...
Sono in grado di ripetere all'infinito la stessa canzone per calmarti.
In due mesi cambiano tante cose.
I tuoi sguardi.
I tuoi primi sorrisi.
Le tue pieghe da shar pei e i tuoi bracciali di ciccia.
Il mio cuore batte forte quando mi incanto a guardarti, e mi commuovo.
<3 inostriduemesi
M.M.
giovedì 8 gennaio 2015
I gruppi terroristici di matrice islamica che agiscono in territorio occidentale vogliono suscitare un'ondata di odio islamofobo, xenofobo, e così destabilizzarci per favorire la salita al potere di forze - come quelle capeggiate da Marine Le Pen, da Salvini, da Farage o altri movimenti diffusi soprattutto in Olanda, nei paesi scandinavi, in alcuni lander tedeschi, o i tea parties americani - che verrebbero a contrapporsi a tutto il mondo islamico tout court.
Gli islamisti vogliono conquistare i paesi islamici, non noi. Vogliono porre gli islamici moderati, non estremisti, magari credenti come lo è un cattolico non integralista, di fronte alla scelta: o noi o l'Occidente che vi è nemico.
La loro è una precisa strategia politica, lucidamente calcolata anche se non coordinata da nessuna centrale operativa unitaria, bensì semmai entrata nella logica di tutti gli islamisti violenti, che vuole ottenere la vittoria dell'Islam politico integralista, non dell'Islam.
Valerio Crugnola
Gli islamisti vogliono conquistare i paesi islamici, non noi. Vogliono porre gli islamici moderati, non estremisti, magari credenti come lo è un cattolico non integralista, di fronte alla scelta: o noi o l'Occidente che vi è nemico.
La loro è una precisa strategia politica, lucidamente calcolata anche se non coordinata da nessuna centrale operativa unitaria, bensì semmai entrata nella logica di tutti gli islamisti violenti, che vuole ottenere la vittoria dell'Islam politico integralista, non dell'Islam.
Valerio Crugnola
domenica 4 gennaio 2015
non esiste fondotinta per i segni che le lasci dentro.
Ensi (da Uomini contro)
[contro la violenza sulle donne]
Ensi (da Uomini contro)
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