giovedì 31 ottobre 2019
domenica 13 ottobre 2019
Barbapartìn (zio Bonaparte: nome tuttora comune fra gli ebrei, a ricordo della prima effimera emancipazione elargita da Napoleone), era decaduto dalla sua qualità di zio perché il Signore, benedetto sia Egli, gli aveva donato una moglie così insopportabile che lui si era battezzato, fatto frate, e partito missionario in Cina, per essere il più possibile lontano da lei.
Primo Levi, "Argon", da Il sistema periodico
Primo Levi, "Argon", da Il sistema periodico
domenica 1 settembre 2019
Ci sono tante cose che mi fanno stare benissimo in vacanza e che faccio tanta fatica a trovare, a mantenere qui.
[...]
La prima, forse la più importante, è una cosa per cui non trovo una parola italiana, è quello stato di “non pensiero” che è contemporaneamente di massima concentrazione: quello stato in cui si è forse sempre da bambini, in cui ho la sensazione siano sempre gli animali, lo stato in cui cerchi sassini bianchi sulla spiaggia, o funghi in un bosco, o peschi, o cerchi di costruire una capanna coi rami o un castello di sabbia o di colorare un disegno complicato.
E non esiste più il mondo eppure ti ci senti del tutto fuso dentro, come se fossi un sassino o un’onda o un fungo. Senti tutto il tuo corpo in ogni centimetro ma fa da solo, magari sudando ma senza sforzo. Non hai nessun pensiero preciso, nessun pensiero formulato in parole, sei solo quello che stai facendo, senza tempo e linguaggio, immemore.
Laura Sphera
[...]
La prima, forse la più importante, è una cosa per cui non trovo una parola italiana, è quello stato di “non pensiero” che è contemporaneamente di massima concentrazione: quello stato in cui si è forse sempre da bambini, in cui ho la sensazione siano sempre gli animali, lo stato in cui cerchi sassini bianchi sulla spiaggia, o funghi in un bosco, o peschi, o cerchi di costruire una capanna coi rami o un castello di sabbia o di colorare un disegno complicato.
E non esiste più il mondo eppure ti ci senti del tutto fuso dentro, come se fossi un sassino o un’onda o un fungo. Senti tutto il tuo corpo in ogni centimetro ma fa da solo, magari sudando ma senza sforzo. Non hai nessun pensiero preciso, nessun pensiero formulato in parole, sei solo quello che stai facendo, senza tempo e linguaggio, immemore.
Laura Sphera
mercoledì 7 agosto 2019
The systematic looting of language can be recognized by the tendency of its users to forgo its nuanced, complex, mid-wifery properties for menace and subjugation. Oppressive language does more than represent violence; it is violence; does more than represent the limits of knowledge; it limits knowledge. Whether it is obscuring state language or the faux-language of mindless media; whether it is the proud but calcified language of the academy or the commodity driven language of science; whether it is the malign language of law-without-ethics, or language designed for the estrangement of minorities, hiding its racist plunder in its literary cheek – it must be rejected, altered and exposed. It is the language that drinks blood, laps vulnerabilities, tucks its fascist boots under crinolines of respectability and patriotism as it moves relentlessly toward the bottom line and the bottomed-out mind. Sexist language, racist language, theistic language – all are typical of the policing languages of mastery, and cannot, do not permit new knowledge or encourage the mutual exchange of ideas.
(Toni Morrison, Nobel Lecture 1993)
Il sistematico saccheggio del linguaggio può essere riconosciuto nella tendenza di coloro che lo usano a fare a meno delle sue proprietà maieutiche (come le sfumature e la complessità) per usarlo invece al fine di minacciare e assoggettare.
Il linguaggio oppressivo fa qualcosa di più che rappresentare la violenza: è violenza; fa qualcosa di più che rappresentare i limiti della conoscenza: limita la conoscenza.
Che si tratti del linguaggio di dominio usato dal potere oppure del falso linguaggio usato in modo spensierato dai media; che si tratti dell’orgoglioso ma imbalsamato linguaggio dell’accademia oppure del linguaggio oggettificato della scienza; che si tratti del linguaggio maligno della legge-senza-etica oppure del linguaggio creato per discriminare le minoranze e nascondere il suo razzismo attraverso la sua sfrontatezza letteraria – esso deve essere rifiutato, modificato, svelato.
Si tratta di un linguaggio che beve sangue, che piega le vulnerabilità, che nasconde i suoi stivali fascisti sotto crinoline di rispettabilità e patriottismo e si muove in fretta e furia verso il fondo, verso menti ridotte ai minimi termini.
Il linguaggio sessista, quello razzista, il linguaggio teistico – sono tutti linguaggi tipici della politica del dominio, e non possono permettere, non permettono nuove conoscenze né incoraggiano il mutuo scambio di idee.
(traduzione di Donatella Trevisan)
(Toni Morrison, Nobel Lecture 1993)
Il sistematico saccheggio del linguaggio può essere riconosciuto nella tendenza di coloro che lo usano a fare a meno delle sue proprietà maieutiche (come le sfumature e la complessità) per usarlo invece al fine di minacciare e assoggettare.
Il linguaggio oppressivo fa qualcosa di più che rappresentare la violenza: è violenza; fa qualcosa di più che rappresentare i limiti della conoscenza: limita la conoscenza.
Che si tratti del linguaggio di dominio usato dal potere oppure del falso linguaggio usato in modo spensierato dai media; che si tratti dell’orgoglioso ma imbalsamato linguaggio dell’accademia oppure del linguaggio oggettificato della scienza; che si tratti del linguaggio maligno della legge-senza-etica oppure del linguaggio creato per discriminare le minoranze e nascondere il suo razzismo attraverso la sua sfrontatezza letteraria – esso deve essere rifiutato, modificato, svelato.
Si tratta di un linguaggio che beve sangue, che piega le vulnerabilità, che nasconde i suoi stivali fascisti sotto crinoline di rispettabilità e patriottismo e si muove in fretta e furia verso il fondo, verso menti ridotte ai minimi termini.
Il linguaggio sessista, quello razzista, il linguaggio teistico – sono tutti linguaggi tipici della politica del dominio, e non possono permettere, non permettono nuove conoscenze né incoraggiano il mutuo scambio di idee.
(traduzione di Donatella Trevisan)
martedì 4 giugno 2019
"L'attenzione si paga in termini di futuri a cui si rinuncia. Paghi quell'episodio extra di Games of Thrones con la chiacchierata cuore a cuore con tuo figlio, preoccupato per qualcosa. Paghi quell'ora extra sui social media con le ore di sonno che non hai dormito e quella sensazione di freschezza che non hai avuto all'indomani. Paghi l'aver ceduto a quell'articolo indignato su quel politico che odi con la pazienza e l'empatia che hai perso, e la rabbia che provi per te stesso per aver abboccato all'esca del clickbait.
Paghiamo l'attenzione con le vite che avremmo potuto vivere."
- James Williams, Scansatevi dalla luce | libertà e resistenza nel digitale
(citato da Maximiliano Bianchi, ovvero Strelnik)
Paghiamo l'attenzione con le vite che avremmo potuto vivere."
- James Williams, Scansatevi dalla luce | libertà e resistenza nel digitale
(citato da Maximiliano Bianchi, ovvero Strelnik)
domenica 17 febbraio 2019
Anch'io alcuni giorni fa ho avuto cinquant'anni.
Lo ricordo bene come fosse domani.
D'altra parte ne ho avuti anche dodici, una volta.
A dirla tutta ne ho avuti parecchi, di anni.
Alcuni anche doppi.
Altri, invece, talmente sfumati che non hanno lasciato nemmeno il segno.
Forse erano tracciati col carboncino.
Se non lo fissi, il carboncino vola via e ne resta così poco sul foglio che a fatica distingui il disegno.
Se mi guardo indietro, gli anni più belli sono stati quelli a matita colorata.
Il mio primo astuccio vero fu uno Stabilo, 24 colori.
C'era anche il verde acqua, mi ricordo.
Poi ci sono stati anni ad olio, ad acrilico e anni a pennino e china.
Belli. Brutti. Indefiniti.
Tanti.
Un bel giorno, non mi ricordo se di pomeriggio o di martedì, stanca di averli attorno a far confusione, mi son decisa e li ho acchiappati tutti con la retina da farfalle, poi li ho chiusi dentro uno scatolone.
Uno di quelli che ti arrivano a Natale, col panettone e i torroncini assortiti.
Uno scatolone di finto velluto blu che sposto una volta a destra sotto alla finestra, un'altra sotto la scrivania, o nell'angolo assieme ai libri.
Non riesco a trovargli il posto giusto e all'alba, quando sono ancora tra il qui e il là, me lo ritrovo sempre tra i piedi.
Lo volevo portar giù in cantina, ma sono così impegnata a fare e disfare pensieri che la sera mi arriva già alle dieci del mattino, e alla fine mi accorgo che lui è ancora lì, a far capolino da dietro la poltrona.
Anche adesso lo vedo, ma faccio finta di niente.
Mi guarda e ogni tanto scuote tutti gli anni che contiene.
Mi fa i dispetti: giusto ieri li avevo ordinati in belle pile a torre di Pisa, dal più al meno, dal blu al rosso, e dal verde al giallo.
Tanta fatica per niente, adesso saranno là dentro tutti mescolati a far arcobaleni di ricordi.
Stamattina m'era venuta voglia di riguardarne uno, il nono compleanno, ché non ricordavo più il colore di quel giorno bello.
A volte mi capita di non riuscire ad afferrare i suoni e gli odori degli anni ammucchiati e allora mi prende un senso di perdita così grande che devo cercar rimedio in una sicurezza a portata di mano. Ma non sempre funziona.
E oggi non riesco ad afferrare la sfumatura che colorò quella giornata di un'estate passata. Era smeraldina o color del tempo? Chissà.
Proverò a cercarla nella scatola blu di velluto finto, ma so già che non la troverò, ribaltata sotto i mesi e i giorni ammucchiati alla rinfusa.
Ci sono persone che sistemano gli anni in fila indiana, lo so.
I trenta prima dei quarantasei e dopo i ventitré.
Quelli belli in prima fila e quelli tristi dietro il gruppo.
Un archivio numerato che incasella tutte le ore al posto giusto, che permette di sapere in qualunque momento l'età giusta da indossare.
Io, invece, ho un tempo tutto mescolato. Un miscuglio marmorizzato di mille colori uguale a quello che ottengo quando alla fine di un quadro raccolgo i colori rimasti sulla tavolozza e li impasto per preparare il fondo della prossima tela.
In fin dei conti ecco a cosa serve aver tanti anni, a far un bel fondo spatolato per il quadro meraviglioso che dipingeremo domani. O lunedì.
O fra cent'anni.
Francesca Ferrari (Giarina)
Lo ricordo bene come fosse domani.
D'altra parte ne ho avuti anche dodici, una volta.
A dirla tutta ne ho avuti parecchi, di anni.
Alcuni anche doppi.
Altri, invece, talmente sfumati che non hanno lasciato nemmeno il segno.
Forse erano tracciati col carboncino.
Se non lo fissi, il carboncino vola via e ne resta così poco sul foglio che a fatica distingui il disegno.
Se mi guardo indietro, gli anni più belli sono stati quelli a matita colorata.
Il mio primo astuccio vero fu uno Stabilo, 24 colori.
C'era anche il verde acqua, mi ricordo.
Poi ci sono stati anni ad olio, ad acrilico e anni a pennino e china.
Belli. Brutti. Indefiniti.
Tanti.
Un bel giorno, non mi ricordo se di pomeriggio o di martedì, stanca di averli attorno a far confusione, mi son decisa e li ho acchiappati tutti con la retina da farfalle, poi li ho chiusi dentro uno scatolone.
Uno di quelli che ti arrivano a Natale, col panettone e i torroncini assortiti.
Uno scatolone di finto velluto blu che sposto una volta a destra sotto alla finestra, un'altra sotto la scrivania, o nell'angolo assieme ai libri.
Non riesco a trovargli il posto giusto e all'alba, quando sono ancora tra il qui e il là, me lo ritrovo sempre tra i piedi.
Lo volevo portar giù in cantina, ma sono così impegnata a fare e disfare pensieri che la sera mi arriva già alle dieci del mattino, e alla fine mi accorgo che lui è ancora lì, a far capolino da dietro la poltrona.
Anche adesso lo vedo, ma faccio finta di niente.
Mi guarda e ogni tanto scuote tutti gli anni che contiene.
Mi fa i dispetti: giusto ieri li avevo ordinati in belle pile a torre di Pisa, dal più al meno, dal blu al rosso, e dal verde al giallo.
Tanta fatica per niente, adesso saranno là dentro tutti mescolati a far arcobaleni di ricordi.
Stamattina m'era venuta voglia di riguardarne uno, il nono compleanno, ché non ricordavo più il colore di quel giorno bello.
A volte mi capita di non riuscire ad afferrare i suoni e gli odori degli anni ammucchiati e allora mi prende un senso di perdita così grande che devo cercar rimedio in una sicurezza a portata di mano. Ma non sempre funziona.
E oggi non riesco ad afferrare la sfumatura che colorò quella giornata di un'estate passata. Era smeraldina o color del tempo? Chissà.
Proverò a cercarla nella scatola blu di velluto finto, ma so già che non la troverò, ribaltata sotto i mesi e i giorni ammucchiati alla rinfusa.
Ci sono persone che sistemano gli anni in fila indiana, lo so.
I trenta prima dei quarantasei e dopo i ventitré.
Quelli belli in prima fila e quelli tristi dietro il gruppo.
Un archivio numerato che incasella tutte le ore al posto giusto, che permette di sapere in qualunque momento l'età giusta da indossare.
Io, invece, ho un tempo tutto mescolato. Un miscuglio marmorizzato di mille colori uguale a quello che ottengo quando alla fine di un quadro raccolgo i colori rimasti sulla tavolozza e li impasto per preparare il fondo della prossima tela.
In fin dei conti ecco a cosa serve aver tanti anni, a far un bel fondo spatolato per il quadro meraviglioso che dipingeremo domani. O lunedì.
O fra cent'anni.
Francesca Ferrari (Giarina)
lunedì 7 gennaio 2019
Ciao, sono un Leghista semplice.
Per un quarto di secolo ho creduto che ogni mio problema fosse causato dai meridionali.
L’ho creduto perché così mi dicevano i capi del mio partito, che erano tutti onesti.
Non come i terroni.
Poi però i capi del mio partito sono stati beccati con i nostri soldi in tasca, e sono crollati al 4%.
Così proprio in quel momento si sono ricordati che i meridionali votano.
E sempre in quel momento hanno scoperto che i meridionali non sono poi tanto male.
E quindi mi hanno detto che per un quarto di secolo si sono sbagliati, e che ora devo credere nell’esatto contrario.
Che l’Italia non la devo più odiare ma amare.
Che con la bandiera italiana oggi non ci puliamo più il culo, ma anzi la baciamo.
E spero che almeno nel frattempo l’abbiano lavata, anche se dubito visto quanto è stato repentino il passaggio tra quando dicevamo “Padania is not Italy” e oggi che diciamo “Prima gli italiani”.
Un paio di anni forse.
I miei capi mi hanno detto che la causa dei miei mali ora sono altri.
Allora ho pensato subito ai potenti, ai privilegiati, ai padroni.
A quelli che ci sono da sempre e rubano da sempre migliaia di miliardi.
Ho pensato agli evasori, i corrotti, i corruttori, i falsi invalidi, gli incapaci, Cosa Nostra, la Camorra, la ‘Ndrangheta, il traffico di droga, il pizzo, gli appalti truccati, la burocrazia inefficiente, il divario tra Nord e Sud, i terreni avvelenati, la giustizia lenta, i raccomandati, i truffatori, i bancarottieri, e tutti gli altri problemi che mi fottono la vita da decenni.
Invece i capi del mio partito mi hanno detto che mi sbaglio, che non sono loro la causa di ogni mio male.
Il mio problema ora sono i morti di fame che arrivano sulle barche.
Quando arrivano.
I miei capi hanno detto che è colpa loro se pago troppe tasse, se le vecchiette rovistano nella spazzatura e i divorziati dormono in macchina.
Che loro in realtà stanno bene, e rischiano la vita per divertimento.
Soprattutto i neri.
E pensiamo che siccome alcuni neri sono delinquenti e maleducati - e lo sono sul serio - allora sono tutti così.
E vanno cacciati tutti.
Anche quelli che non ci hanno ancora fatto nulla.
Ho pensato che questo sia razzismo.
Che etichettare una persona non per quello che ha fatto, ma per il popolo a cui appartiene sia razzismo.
Ma mi hanno detto di no.
Così come ho pensato che anche noi italiani siamo migranti economici.
Siamo quelli che emigrano di più.
200.000 in 3 anni.
Andiamo negli altri paesi a cercare lavoro, non scappiamo da alcuna guerra.
Ma mi hanno detto che noi siamo "cervelli in fuga".
Loro invece sono parassiti.
Come i meridionali che vengono dal Sud a rubarc... ah no scusate, mi sono distratto.
E' che sono un leghista semplice.
E non riesco a stargli dietro. Ma ci provo.
In fondo mi accontento di poco: un padrone da seguire qualsiasi cosa dica e che indossi felpe e mangi arancini per farmi sentire che lui è come me.
Mi basta della gente da odiare e a cui addossare la colpa di ogni mio problema.
E sto bene così.
Mi accontento.
L'ho detto.
Sono un leghista semplice.
Emilio Mola
Per un quarto di secolo ho creduto che ogni mio problema fosse causato dai meridionali.
L’ho creduto perché così mi dicevano i capi del mio partito, che erano tutti onesti.
Non come i terroni.
Poi però i capi del mio partito sono stati beccati con i nostri soldi in tasca, e sono crollati al 4%.
Così proprio in quel momento si sono ricordati che i meridionali votano.
E sempre in quel momento hanno scoperto che i meridionali non sono poi tanto male.
E quindi mi hanno detto che per un quarto di secolo si sono sbagliati, e che ora devo credere nell’esatto contrario.
Che l’Italia non la devo più odiare ma amare.
Che con la bandiera italiana oggi non ci puliamo più il culo, ma anzi la baciamo.
E spero che almeno nel frattempo l’abbiano lavata, anche se dubito visto quanto è stato repentino il passaggio tra quando dicevamo “Padania is not Italy” e oggi che diciamo “Prima gli italiani”.
Un paio di anni forse.
I miei capi mi hanno detto che la causa dei miei mali ora sono altri.
Allora ho pensato subito ai potenti, ai privilegiati, ai padroni.
A quelli che ci sono da sempre e rubano da sempre migliaia di miliardi.
Ho pensato agli evasori, i corrotti, i corruttori, i falsi invalidi, gli incapaci, Cosa Nostra, la Camorra, la ‘Ndrangheta, il traffico di droga, il pizzo, gli appalti truccati, la burocrazia inefficiente, il divario tra Nord e Sud, i terreni avvelenati, la giustizia lenta, i raccomandati, i truffatori, i bancarottieri, e tutti gli altri problemi che mi fottono la vita da decenni.
Invece i capi del mio partito mi hanno detto che mi sbaglio, che non sono loro la causa di ogni mio male.
Il mio problema ora sono i morti di fame che arrivano sulle barche.
Quando arrivano.
I miei capi hanno detto che è colpa loro se pago troppe tasse, se le vecchiette rovistano nella spazzatura e i divorziati dormono in macchina.
Che loro in realtà stanno bene, e rischiano la vita per divertimento.
Soprattutto i neri.
E pensiamo che siccome alcuni neri sono delinquenti e maleducati - e lo sono sul serio - allora sono tutti così.
E vanno cacciati tutti.
Anche quelli che non ci hanno ancora fatto nulla.
Ho pensato che questo sia razzismo.
Che etichettare una persona non per quello che ha fatto, ma per il popolo a cui appartiene sia razzismo.
Ma mi hanno detto di no.
Così come ho pensato che anche noi italiani siamo migranti economici.
Siamo quelli che emigrano di più.
200.000 in 3 anni.
Andiamo negli altri paesi a cercare lavoro, non scappiamo da alcuna guerra.
Ma mi hanno detto che noi siamo "cervelli in fuga".
Loro invece sono parassiti.
Come i meridionali che vengono dal Sud a rubarc... ah no scusate, mi sono distratto.
E' che sono un leghista semplice.
E non riesco a stargli dietro. Ma ci provo.
In fondo mi accontento di poco: un padrone da seguire qualsiasi cosa dica e che indossi felpe e mangi arancini per farmi sentire che lui è come me.
Mi basta della gente da odiare e a cui addossare la colpa di ogni mio problema.
E sto bene così.
Mi accontento.
L'ho detto.
Sono un leghista semplice.
Emilio Mola
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