giovedì 1 ottobre 2015

Accompagno le bambine a scuola, poi mi allungo dalla pediatra a ritirare un certificato per Ginevra.
Nella sala d'attesa siamo in sette persone. Sono seduto accanto a una signora riccia coi capelli raccolti sopra la nuca e gli occhiali da segretaria, che sta digitando furiosamente su un tablet. Di fronte a me una coppia di colore, entrambi scurissimi, con una bambina minuta che la mamma sta allattando al seno. Sono così belle che sembrano un quadro. Una bambina bionda con le trecce, seduta in fianco a una nonna vestita elegante, li osserva come ipnotizzata. La nonna osserva a sua volta la nipote con un'espressione di allarme. Quando la bambina bionda scende dalla sedia, la nonna ha un sussulto. La bambina bionda va dritta dalla coppia di colore e prima che la nonna riesca a fermarla fa una carezza sulla testa alla bambina piccola. La mamma stacca la bambina piccola dal seno, si sistema, la batte sulla schiena, infine la volta tenendola seduta su una gamba proprio davanti alla bambina bionda, quasi per dargliela. La bambina bionda la fissa.
"Quanti anni hai?", dice la mamma di colore in un italiano incerto.
"Due", dice la bambina bionda, facendo il segno con le dita.
"Ormai tre", la corregge la nonna alle sue spalle.
"Come si chiama?", dice la bambina bionda indicando la bambina piccola.
"Si chiama Anele", dice la mamma.
"E quanti anni ha?", dice la bambina bionda.
"Ha due mesi e mezzo", interviene il papà, "è una bambina molto piccola."
La bambina bionda le avvicina la mano alla guancia e la accarezza ancora. La nonna ha sul viso un'espressione che pare dire "oddio, ecco l'Ebola". La bambina piccola, calmissima, sembra accennare un sorriso.
"Come si chiama di cognome?", dice la bambina bionda.
"Mbokany", dice il papà.
La bambina bionda prova a dirlo, ma non ci riesce.
"È un nome difficile", dice il papà. La bambina bionda prova ancora. La porta della dottoressa si apre.
"Semprebon!", dice la dottoressa.
La nonna si incammina e fa per entrare nello studio.
"Priscilla!", dice quand'è quasi sulla porta, "vieni, dai."
Priscilla non si muove, continua a fissare la bambina piccola.
"Vai che la mamma ti chiama", dice l'uomo di colore.
La nonna dalla porta guarda l'uomo.
"Sono la nonna", dice con una punta di fastidio nella voce.
"Signora, credo volesse farle un complimento", dico io.
L'uomo sorride, la nonna no.
"Bokani!", dice Priscilla.
"Brava", dice l'uomo, "ma adesso vai dalla nonna."
Priscilla obbedisce, entrano, la porta dello studio si chiude. L'uomo ed io ci guardiamo. La signora riccia continua a digitare sul suo tablet.
"Non è che volevo fare un complimento", dice, " è che nel mio paese nonna e mamma si dicono nello stesso modo, e anche dopo quasi tre anni mi sbaglio sempre."
"Capisco", dico. "Io lo dicevo solo perché dicendole mamma l'hai fatta sentire più giovane."
"Giovane è un complimento?", dice.
"Di sicuro non lo è vecchio", dico ridendo.
L'uomo mi fissa.
"Da noi i vecchi sono gli adulti più rispettati, i più preziosi", dice. "Per questo durante la guerra li uccidono per primi."
Mi sento spiazzato, come se qualcuno avesse improvvisamente girato la mia testa in un'altra direzione.
"Ma se i vecchi sono più preziosi", dico, "allora perché mamma e nonna si dicono allo stesso modo?"
Mi guarda con uno sguardo paterno, lo so perché li conosco bene.
"Perché mamme e nonne hanno dato la vita", dice indicando prima sua moglie e poi sua figlia.
Penso che mi sembra un concetto così elementare da essere meraviglioso. Guardo quest'uomo scuro come la notte, la sua compostezza, lo ascolto parlare con misura ed educazione, non una parola fuori posto. Penso anche che lui è lì con la sua famiglia, li ha accompagnati. Mentre io, per esempio, sono dal pediatra da solo, e la bambina bionda, per esempio, è venuta con la nonna, e la signora riccia, per esempio, non ha mai sollevato la testa da quando siamo entrati, come se non esistessimo.
Lo guardo e non conosco la sua storia, ignoro se sia arrivato qui su un barcone o su un jet privato, se sia un lavapiatti o se sia laureato a Oxford. Ma non posso fare a meno di pensare al pregiudizio nello sguardo della nonna di Priscilla, ai soliti discorsi sull'"invasione", a quelli che senza farsi alcuna domanda mai, vorrebbero "aiutarli tutti a casa loro".
E mi viene da pensare, invece, a quanto avremmo tanto bisogno di persone come quest'uomo. Per guardare in altre direzioni. Per riscoprire i fondamentali.
Per aiutarci un poco a casa nostra.

Matteo Bussola

3 commenti:

peppermind ha detto...

bello, bravo. Cazzo, ma non si usa più mettere i commenti ai blog?

skip ha detto...

I valori più semplici non tramontano mai. Bel post, grazie.

Zu ha detto...

L'ho trovato su facebook, ma ho voluto portarlo anche fuori da quel recinto blu, qui nella buona vecchia blogosfera.

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