... questo genere di cose al limite della correttezza avviene di frequente nella nostra società. Le banche ad esempio, a forza di prendere ogni giorno in consegna il denaro dei clienti, a poco a poco finiscono per considerarlo proprio. I funzionari pubblici sono al servizio della popolazione e possono venire considerati dei rappresentanti che hanno ricevuto un certo potere per risolvere una serie di problemi. Peccano che a forza di esercitare le loro funzioni al riparo della loro autorità, alla fine si montino la testa e credano di possederla definitivamente, quest'autorità, senza che i cittadini abbiano diritto alcuno di interferire.
Io sono un gatto, Natume Sōseki (traduzione in italiano di Antonietta Pastore)
[ma non stare a leggerlo, è un libro palloso. A un certo punto, uno dei personaggi racconta una storia che persino gli altri personaggi trovano noiosa, e lì il libro diventa palloso al quadrato.]
sabato 9 maggio 2020
Le bolle.
Primo Maggio 1959; mancavano 8 giorni alla mia nascita.
A quei tempi c'erano due sole cose che potevano dirsi veramente al sicuro.
Io, ignaro di quello che c'era fuori; e il mondo, ignaro di quello che c'era dentro.
Otto giorni dopo nasco piangendo (come tutti del resto), e chi c'era fuori rideva e faceva feste e robe così. Sulle prime pensavo fossi arrivato in un resort all inclusive, poi col tempo ho capito la fregatura.
Non ho ricordi precisi di quei primi giorni, ma so per certo che tutti avevano modi gentili e un linguaggio improbabile, tutto vezzi e moine; come poi abbia potuto imparare a parlare compiutamente, visti gli esempi, rimane un mistero. Ad ogni modo, ero considerato un genio. Perché?
Le bolle.
Ancora non era fine Maggio e già sapevo fare le bolle. E questa cosa spiazzò tutti. Non male per un tizio che manco sapeva cosa erano le bolle.
Beh, non è che mi limitassi a dare forma sferica alla saliva. Piangevo nelle ore notturne, e dormivo a tratti; quando i miei erano svegli.
Diciamola tutta, ero un bel rompicoglioni, e a pensarci bene non è che sia cambiato di molto. Parlo del carattere, naturalmente.
Comunque non è che fossi poi così diverso dagli altri, a quell'età siamo grumi di egoismo puro, innocenti despoti, vili carogne ombelico-centriche.
Però all'inizio tutti mi sorridevano, qualunque cosa facessi. Me la facevo sotto? Nessun problema; tutti a farmi complimenti. La mia pipì era benedetta, i miei ruttini salutati come fossero parenti che non vedi da trenta anni.
Insomma, disponibilità totale. C’era persino una tizia che a orari precisi arrivava e mi metteva una tetta in bocca, no così, tanto per dire la qualità e la globalità dei bisogni soddisfatti.
Poi si sa, la vita va avanti.
Devi trattenere le puzzette, comportarti a modo, imparare le buone maniere...
Tette?
Rarissime, e mai a orari predefiniti.
E adesso, dopo tutti questi anni, di quel genio che si agitava a cazzo facendo bolle in una culla, sono rimasto io.
Mi spiace.
Fatevene una ragione.
LBC (remote)
Primo Maggio 1959; mancavano 8 giorni alla mia nascita.
A quei tempi c'erano due sole cose che potevano dirsi veramente al sicuro.
Io, ignaro di quello che c'era fuori; e il mondo, ignaro di quello che c'era dentro.
Otto giorni dopo nasco piangendo (come tutti del resto), e chi c'era fuori rideva e faceva feste e robe così. Sulle prime pensavo fossi arrivato in un resort all inclusive, poi col tempo ho capito la fregatura.
Non ho ricordi precisi di quei primi giorni, ma so per certo che tutti avevano modi gentili e un linguaggio improbabile, tutto vezzi e moine; come poi abbia potuto imparare a parlare compiutamente, visti gli esempi, rimane un mistero. Ad ogni modo, ero considerato un genio. Perché?
Le bolle.
Ancora non era fine Maggio e già sapevo fare le bolle. E questa cosa spiazzò tutti. Non male per un tizio che manco sapeva cosa erano le bolle.
Beh, non è che mi limitassi a dare forma sferica alla saliva. Piangevo nelle ore notturne, e dormivo a tratti; quando i miei erano svegli.
Diciamola tutta, ero un bel rompicoglioni, e a pensarci bene non è che sia cambiato di molto. Parlo del carattere, naturalmente.
Comunque non è che fossi poi così diverso dagli altri, a quell'età siamo grumi di egoismo puro, innocenti despoti, vili carogne ombelico-centriche.
Però all'inizio tutti mi sorridevano, qualunque cosa facessi. Me la facevo sotto? Nessun problema; tutti a farmi complimenti. La mia pipì era benedetta, i miei ruttini salutati come fossero parenti che non vedi da trenta anni.
Insomma, disponibilità totale. C’era persino una tizia che a orari precisi arrivava e mi metteva una tetta in bocca, no così, tanto per dire la qualità e la globalità dei bisogni soddisfatti.
Poi si sa, la vita va avanti.
Devi trattenere le puzzette, comportarti a modo, imparare le buone maniere...
Tette?
Rarissime, e mai a orari predefiniti.
E adesso, dopo tutti questi anni, di quel genio che si agitava a cazzo facendo bolle in una culla, sono rimasto io.
Mi spiace.
Fatevene una ragione.
LBC (remote)
mercoledì 1 aprile 2020
SEI UN ROMPICOGLIONI?
Prima di scrivere, postare, messaggiare, telefonare, videochiamare, fatti questa domanda.
Ecco alcuni esempi o suggerimenti che possono aiutarti a capire se sei un rompicoglioni, o se invece no.
-stai per inoltrare un audio messaggio o un video senza spiegare di cosa si tratta
-stai scrivendo o chiamando principalmente per lamentarti dei cazzi tuoi e dei problemi tuoi
-stai chiamando o scrivendo in orario di lavoro, anche se il tuo messaggio non è urgente, e ti aspetti una risposta immediata
-stai inoltrando con un messaggio personale l'ennesimo meme, senza aggiungere nessuna spiegazione
-non sai come risolvere un problema tuo per il quale basta mettere la domanda su google per avere la risposta, ma tu pensi di scrivere/chiamare un amico (ex, amico)
Barbara Trigari
Prima di scrivere, postare, messaggiare, telefonare, videochiamare, fatti questa domanda.
Ecco alcuni esempi o suggerimenti che possono aiutarti a capire se sei un rompicoglioni, o se invece no.
-stai per inoltrare un audio messaggio o un video senza spiegare di cosa si tratta
-stai scrivendo o chiamando principalmente per lamentarti dei cazzi tuoi e dei problemi tuoi
-stai chiamando o scrivendo in orario di lavoro, anche se il tuo messaggio non è urgente, e ti aspetti una risposta immediata
-stai inoltrando con un messaggio personale l'ennesimo meme, senza aggiungere nessuna spiegazione
-non sai come risolvere un problema tuo per il quale basta mettere la domanda su google per avere la risposta, ma tu pensi di scrivere/chiamare un amico (ex, amico)
Barbara Trigari
lunedì 30 marzo 2020
"Mamma, il coronavirus è andato via oggi? Che ne dici se andiamo, uhm, in piscina?"
Ieri era la piscina, altre mattine è il mare, il parco, la scuola, la ginnastica, "a fare un giretto piccolo". All'inizio lo chiamava "il virus della corona". Quando lo sente nominare in televisione mi chiede sempre perché ne stanno parlando. Vuole capire cosa sta accadendo. Ha sviluppato spontaneamente una sua forma di preghiera animista: "Caro coronavirus, puoi andare via e fare guarire tutte le persone? Mi ha ascoltato mamma, adesso vedi che va via".
Come tutti, Viola è andata a scuola l'ultima volta il 21 febbraio, cinque settimane fa. Il giorno prima hanno fatto la festina in maschera, quel giorno la maestra mi ha chiesto de rivolessi i libri che avevo prestato alla classe. "Ma no, tanto mercoledì ritornate a usarli". Per fortuna non ce ne mancano.
Nei giorni dopo siamo uscite poco. Una lezione di ginnastica e una in piscina, con i pochi bimbi presenti concentrati e felici di qualcosa che ricordasse la solita routine settimanale, un paio di volte ai giardini, a prendere il gelato. Il sabato abbiamo visto per l'ultima volta il parco e la sua migliore amica. Poi, come molti, abbiamo chiuso col mondo.
In queste tre settimane in casa ha avuto dei crolli. Una volta è scoppiata a piangere chiedendomi "almeno una passeggiata". Un pomeriggio ha voluto tornare nel marsupio per la prima volta da mesi e ci è rimasta due ore.
Pian piano ha accettato che la realtà si sia ristretta ai muri intorno a noi. Con il giardinetto e i nonni vicini, resta comunque tanto più fortunata di tanti. Le ho promesso che faremo un picnic appena farà più caldo, si è messa a saltare: "È un'idea FANTASTICA!". Ci vuole poco a farla contenta. Sabato abbiamo ordinato per la prima volta le pizze nella pizzeria dove andiamo di solito, che ha giusto riaperto per le consegne a domicilio per il weekend. "Andiamo a cena fuori? "No, è la cena che viene da noi!" "Oh, sono COSÌ felice!".
Ogni mattina vuole che la vesta elegante. "Mamma, fammi scegliere il vestito di oggi". È poco concentrata, il tempo di chiedermi di fare un'attività, prepararci a farla, ed è già oltre. Gioca, ride e ci fa ridere tanto, guarda cartoni, balla, non sta mai zitta. Ogni tanto, di colpo, guarda il soffitto o un punto lontano, mi ignora. "Che succede?" "Sto pensando". A cosa non è sempre dato sapere.
È comunque nervosa quanto noi, aggressiva, sfidante e alla ricerca del nostro punto di rottura. Ha il radar puntato su di noi e il nostro umore più che mai. Se non mi trova dove crede che sia (un'altra stanza, di fianco a lei nel buio) scoppia a piangere e mi chiama. Mi tocca nella notte: "Mamma, sei tu?" E chi dovrei essere?, le dico, e si rilassa. Se mi siedo mi si sdraia addosso, "Stiamo sempre insieme, vero?". E finché non le dico di sì non mi dà tregua. Se usciamo per andare a fare la spesa si piazza davanti alla porta e si abbarbica: "Dove vai, non devi andare, è pericoloso, c'è il virus. Dammi un bacio, un abbraccio, mi mancherai. Metti la mascherina".
Ne ha voluta una anche lei da indossare ogni tanto anche se non esce. Si affaccia dal balcone e si sbraccia con tutti quelli che passano, fa amicizia: "Ciaaao! Come stai? Io benissimo, grazie. Dove vai? Che bel cane!". Se vede dei bambini camminare (come i due che seguivano con il trolley il padre fino all'auto, evidentemente per il weekend) li guarda perplessa. Ieri sono passati anche un papà con una bimba entrambi in tuta, correvano su e giù per la via. La nostra via è deserta e lunga esattamente 200 metri, noi siamo esattamente a metà. Ma non so se avrò il coraggio di fare lo stesso.
Anche al telefono a tutti dice che sta benissimo, ma la sua espressione di pura nostalgia quando guarda a ripetizione i video dei suoi compagni mi stringe il cuore. "Poi facciamo una festa e invitiamo tutti, vero?". Le dico di sì, e come lei anche io non vedo l'ora che si possa fare. Stamattina a letto mi ha raccontato di essere sulla spiaggia, con i piedi sulla sabbia calda e poi nell'acqua. "Ti prometto che appena potremo andremo". "Ma mamma, stiamo facendo finta! Senti... è andato via oggi? Perché non ancora?"
Virginia Michetti
Ieri era la piscina, altre mattine è il mare, il parco, la scuola, la ginnastica, "a fare un giretto piccolo". All'inizio lo chiamava "il virus della corona". Quando lo sente nominare in televisione mi chiede sempre perché ne stanno parlando. Vuole capire cosa sta accadendo. Ha sviluppato spontaneamente una sua forma di preghiera animista: "Caro coronavirus, puoi andare via e fare guarire tutte le persone? Mi ha ascoltato mamma, adesso vedi che va via".
Come tutti, Viola è andata a scuola l'ultima volta il 21 febbraio, cinque settimane fa. Il giorno prima hanno fatto la festina in maschera, quel giorno la maestra mi ha chiesto de rivolessi i libri che avevo prestato alla classe. "Ma no, tanto mercoledì ritornate a usarli". Per fortuna non ce ne mancano.
Nei giorni dopo siamo uscite poco. Una lezione di ginnastica e una in piscina, con i pochi bimbi presenti concentrati e felici di qualcosa che ricordasse la solita routine settimanale, un paio di volte ai giardini, a prendere il gelato. Il sabato abbiamo visto per l'ultima volta il parco e la sua migliore amica. Poi, come molti, abbiamo chiuso col mondo.
In queste tre settimane in casa ha avuto dei crolli. Una volta è scoppiata a piangere chiedendomi "almeno una passeggiata". Un pomeriggio ha voluto tornare nel marsupio per la prima volta da mesi e ci è rimasta due ore.
Pian piano ha accettato che la realtà si sia ristretta ai muri intorno a noi. Con il giardinetto e i nonni vicini, resta comunque tanto più fortunata di tanti. Le ho promesso che faremo un picnic appena farà più caldo, si è messa a saltare: "È un'idea FANTASTICA!". Ci vuole poco a farla contenta. Sabato abbiamo ordinato per la prima volta le pizze nella pizzeria dove andiamo di solito, che ha giusto riaperto per le consegne a domicilio per il weekend. "Andiamo a cena fuori? "No, è la cena che viene da noi!" "Oh, sono COSÌ felice!".
Ogni mattina vuole che la vesta elegante. "Mamma, fammi scegliere il vestito di oggi". È poco concentrata, il tempo di chiedermi di fare un'attività, prepararci a farla, ed è già oltre. Gioca, ride e ci fa ridere tanto, guarda cartoni, balla, non sta mai zitta. Ogni tanto, di colpo, guarda il soffitto o un punto lontano, mi ignora. "Che succede?" "Sto pensando". A cosa non è sempre dato sapere.
È comunque nervosa quanto noi, aggressiva, sfidante e alla ricerca del nostro punto di rottura. Ha il radar puntato su di noi e il nostro umore più che mai. Se non mi trova dove crede che sia (un'altra stanza, di fianco a lei nel buio) scoppia a piangere e mi chiama. Mi tocca nella notte: "Mamma, sei tu?" E chi dovrei essere?, le dico, e si rilassa. Se mi siedo mi si sdraia addosso, "Stiamo sempre insieme, vero?". E finché non le dico di sì non mi dà tregua. Se usciamo per andare a fare la spesa si piazza davanti alla porta e si abbarbica: "Dove vai, non devi andare, è pericoloso, c'è il virus. Dammi un bacio, un abbraccio, mi mancherai. Metti la mascherina".
Ne ha voluta una anche lei da indossare ogni tanto anche se non esce. Si affaccia dal balcone e si sbraccia con tutti quelli che passano, fa amicizia: "Ciaaao! Come stai? Io benissimo, grazie. Dove vai? Che bel cane!". Se vede dei bambini camminare (come i due che seguivano con il trolley il padre fino all'auto, evidentemente per il weekend) li guarda perplessa. Ieri sono passati anche un papà con una bimba entrambi in tuta, correvano su e giù per la via. La nostra via è deserta e lunga esattamente 200 metri, noi siamo esattamente a metà. Ma non so se avrò il coraggio di fare lo stesso.
Anche al telefono a tutti dice che sta benissimo, ma la sua espressione di pura nostalgia quando guarda a ripetizione i video dei suoi compagni mi stringe il cuore. "Poi facciamo una festa e invitiamo tutti, vero?". Le dico di sì, e come lei anche io non vedo l'ora che si possa fare. Stamattina a letto mi ha raccontato di essere sulla spiaggia, con i piedi sulla sabbia calda e poi nell'acqua. "Ti prometto che appena potremo andremo". "Ma mamma, stiamo facendo finta! Senti... è andato via oggi? Perché non ancora?"
Virginia Michetti
giovedì 23 gennaio 2020
Metropolitana milanese, linea verde. Numero 2, in ordine cronologico.
Il convoglio sfreccia davanti al mio viso come se non dovesse fermarsi mai e un attimo dopo è immobile come non si fosse mai mosso. Apre le porte, salgo.
Studio l'ambiente, lo faccio sempre, e scruto veloce lo sguardo di chi non ha ancora eseguito l'impianto neurale occhi/cellulare: tutto bene, sono tre su circa duecento, sono coloro che ancora leggono libri e che domineranno il mondo, gente che nemmeno sa cosa sia Bibbiano, gente pura che pensa alla soluzione finale con grande ottimismo. In Matrix sarebbero gli eletti, qui sono i Messia.
Si chiudono le porte, e in pochi sembrano notarlo, eppure non è normale che un sistema idraulico di tale complessità debba per forza funzionare. Registro e lateralizzo il dettaglio, ora devo capire con chi passerò i miei prossimi minuti di vita.
Un'anziana signora in piedi ondeggia a un metro da me come un galleggiante nell'acqua, né fuori né dentro. Sembra debba cadere, non cade, non si aggrappa a niente. La squadro partendo dal basso: le sue non sono semplici scarpe da noviziato, sono calzari magnetici che la tengono ancorata al pavimento contro ogni valore G.
Una fotomodella-modello standard rivolge lo sguardo nove orbite solari più su, probabilmente scongelata stanotte dopo che la vidi, uguale ad oggi, identica vent'anni fa probabilmente nello stesso convoglio: la usano a ogni nuova campagna del mercatone dell'arredamento di Fizzonasco, il titolare ci tiene alla continuità e paga bene i genitori per il letargo criogenico della minorenne, ormai oltre gli anta ma lei non lo sa.
Il ragionier Rossi replica al mio occhiare e abbassa nervosamente gli occhiali di osso spesso misura anni '70, scotch anni' 80, disponibilità a 90, sociosensibile 360°. Passo oltre: il mio superudito avverte un tappare collettivo, è uscito un nuovo meme su instagram, il contagio è istantaneo, sono già tutti morti mentre si preoccupano di Wuhan e di un'altra epidemia da cui stare lontani, stretti stretti, belli appiccicati. Tossisco forzatamente per generare panico ma la realtà non sfonda il display, non da davanti.
Un cinese resta in un angolo, un cordone sanitario virtuale lo ripara da eventuali aggressioni, la distanza di rispetto è proporzionale al numero di morti per l'epidemia e cresce di fermata in fermata.
Il convoglio si muove.
Un ragazzino si guarda intorno, il padre è dentro un videogioco e ne uscirà a Loreto, ha quattro vite, una clandestina, una con sua moglie, altre due online.
Io avverto un senso di ingiustizia e sorrido al credoquasidodicenne. Lui ferma il suo sguardo su di me. Ricambia il sorriso.
In un attimo capisco che siamo uguali.
Conosco il suo pensiero: aiutami, siamo circondati da zombie che esplicitano il loro essere nelle viscere della città per poi celarle goffamente una volta riemersi in superficie. Annuisco per fargli capire che ho capito, ho colto la sua richiesta di aiuto.
Tuttavia, sappiamo entrambi che loro si riconoscono anche là fuori. Hanno un segnale convenuto con il quale dichiararsi.
Io e il ragazzino ci fissiamo ancora pochi secondi, il tempo affinché lui possa condividere le ultime sue intuizioni e mettermi in guardia da cose che solo una mente giovane può indovinare.
Ora schiude appena la bocca.
Non lo fare, ragazzino. So che vuoi rivelarti a me, ma non lo fare, non serve, ho capito. Se ti fai riconoscere, tempo un compleanno e ti regalano uno di quei cosi e finirai come loro. Ma non riesco a fermarlo e in lui riconosco l'eroe, colui che comunque cambierà il corso di qualcosa e inizierà proprio da me.
Eccolo che parla e nel fragore del vagone afferro la Domanda, scandita bene ad alta voce affinché tutti possano udire: "Signore, vuole sedersi?".
Rimango immobile, tutto si ferma, anche il convoglio, qualcosa mi ha scosso dalle fondamenta. In un attimo non ho più vent'anni, né ottanta e nemmeno sono Signore. Signore è morte e distruzione, Signore è l'abisso, il punto di non ritorno, Signore è l'anticamera del posto fisso ai margini del cantiere, le mani dietro la schiena. Signore è la condizione che se l'accetti è il segnale di resa: le cellule cadono a terra strato per strato, le domeniche sono al parco a giocare a bocce, i giornali si usano per pulire i vetri che non fanno alone.
Mi volto, faccia da poker, sfilo accanto alla vecchia urtandola volontariamente e i suoi scarponi fanno il loro lavoro.
Infilo le porte del vagone ancora fermo, non leggo il nome della stazione, ora sono altrove, sono a un vecchio trauma, sono seduto sul tram numero 15, direzione Gratosoglio, trentacinque anni fa, chiedo a un vecchietto se vuole sedersi, mi squadra e mi manda a fare in culo, tu e la tua gentilezza, cafone! e allora capisco tutto, lo perdono, mi perdono e i miei occhi si perdono a cercare l'uscita, devo riemergere, il cellulare non prende qui così.
Roberto Rilletti (Rillo)
Il convoglio sfreccia davanti al mio viso come se non dovesse fermarsi mai e un attimo dopo è immobile come non si fosse mai mosso. Apre le porte, salgo.
Studio l'ambiente, lo faccio sempre, e scruto veloce lo sguardo di chi non ha ancora eseguito l'impianto neurale occhi/cellulare: tutto bene, sono tre su circa duecento, sono coloro che ancora leggono libri e che domineranno il mondo, gente che nemmeno sa cosa sia Bibbiano, gente pura che pensa alla soluzione finale con grande ottimismo. In Matrix sarebbero gli eletti, qui sono i Messia.
Si chiudono le porte, e in pochi sembrano notarlo, eppure non è normale che un sistema idraulico di tale complessità debba per forza funzionare. Registro e lateralizzo il dettaglio, ora devo capire con chi passerò i miei prossimi minuti di vita.
Un'anziana signora in piedi ondeggia a un metro da me come un galleggiante nell'acqua, né fuori né dentro. Sembra debba cadere, non cade, non si aggrappa a niente. La squadro partendo dal basso: le sue non sono semplici scarpe da noviziato, sono calzari magnetici che la tengono ancorata al pavimento contro ogni valore G.
Una fotomodella-modello standard rivolge lo sguardo nove orbite solari più su, probabilmente scongelata stanotte dopo che la vidi, uguale ad oggi, identica vent'anni fa probabilmente nello stesso convoglio: la usano a ogni nuova campagna del mercatone dell'arredamento di Fizzonasco, il titolare ci tiene alla continuità e paga bene i genitori per il letargo criogenico della minorenne, ormai oltre gli anta ma lei non lo sa.
Il ragionier Rossi replica al mio occhiare e abbassa nervosamente gli occhiali di osso spesso misura anni '70, scotch anni' 80, disponibilità a 90, sociosensibile 360°. Passo oltre: il mio superudito avverte un tappare collettivo, è uscito un nuovo meme su instagram, il contagio è istantaneo, sono già tutti morti mentre si preoccupano di Wuhan e di un'altra epidemia da cui stare lontani, stretti stretti, belli appiccicati. Tossisco forzatamente per generare panico ma la realtà non sfonda il display, non da davanti.
Un cinese resta in un angolo, un cordone sanitario virtuale lo ripara da eventuali aggressioni, la distanza di rispetto è proporzionale al numero di morti per l'epidemia e cresce di fermata in fermata.
Il convoglio si muove.
Un ragazzino si guarda intorno, il padre è dentro un videogioco e ne uscirà a Loreto, ha quattro vite, una clandestina, una con sua moglie, altre due online.
Io avverto un senso di ingiustizia e sorrido al credoquasidodicenne. Lui ferma il suo sguardo su di me. Ricambia il sorriso.
In un attimo capisco che siamo uguali.
Conosco il suo pensiero: aiutami, siamo circondati da zombie che esplicitano il loro essere nelle viscere della città per poi celarle goffamente una volta riemersi in superficie. Annuisco per fargli capire che ho capito, ho colto la sua richiesta di aiuto.
Tuttavia, sappiamo entrambi che loro si riconoscono anche là fuori. Hanno un segnale convenuto con il quale dichiararsi.
Io e il ragazzino ci fissiamo ancora pochi secondi, il tempo affinché lui possa condividere le ultime sue intuizioni e mettermi in guardia da cose che solo una mente giovane può indovinare.
Ora schiude appena la bocca.
Non lo fare, ragazzino. So che vuoi rivelarti a me, ma non lo fare, non serve, ho capito. Se ti fai riconoscere, tempo un compleanno e ti regalano uno di quei cosi e finirai come loro. Ma non riesco a fermarlo e in lui riconosco l'eroe, colui che comunque cambierà il corso di qualcosa e inizierà proprio da me.
Eccolo che parla e nel fragore del vagone afferro la Domanda, scandita bene ad alta voce affinché tutti possano udire: "Signore, vuole sedersi?".
Rimango immobile, tutto si ferma, anche il convoglio, qualcosa mi ha scosso dalle fondamenta. In un attimo non ho più vent'anni, né ottanta e nemmeno sono Signore. Signore è morte e distruzione, Signore è l'abisso, il punto di non ritorno, Signore è l'anticamera del posto fisso ai margini del cantiere, le mani dietro la schiena. Signore è la condizione che se l'accetti è il segnale di resa: le cellule cadono a terra strato per strato, le domeniche sono al parco a giocare a bocce, i giornali si usano per pulire i vetri che non fanno alone.
Mi volto, faccia da poker, sfilo accanto alla vecchia urtandola volontariamente e i suoi scarponi fanno il loro lavoro.
Infilo le porte del vagone ancora fermo, non leggo il nome della stazione, ora sono altrove, sono a un vecchio trauma, sono seduto sul tram numero 15, direzione Gratosoglio, trentacinque anni fa, chiedo a un vecchietto se vuole sedersi, mi squadra e mi manda a fare in culo, tu e la tua gentilezza, cafone! e allora capisco tutto, lo perdono, mi perdono e i miei occhi si perdono a cercare l'uscita, devo riemergere, il cellulare non prende qui così.
Roberto Rilletti (Rillo)
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